• L’aura spirituale della danza di Anne Teresa De Keersmaeker

    Dove sono andate le cattive ragazze di un tempo, viene spontaneo domandarsi di fronte al nitore pacificante, alla composta bellezza della nuova creazione di Anne Teresa De Keersmaeker. E del resto un’aura spirituale traspira già dalla scelta delle musiche utilizzate nei due pezzi montati insieme dalla coreografa belga, Raga for the the rainy season e A love supreme. Il lamento d’amore associato alla musica tradizionale indiana e il jazz devozionale di John Coltrane, mondi lontani unificati dal senso di attesa che promana dalla lentezza dei movimenti.

    Ci aveva innamorato agli inizi, Anne Teresa, quando apparve sulle scene, giovanissima, a metà degli anni Ottanta, con la frangetta nera che scendeva sulla fronte e le dava un’aria ancor più infantile e imbronciata. Lo spettacolo rivelatore si chiamava Rosas, come il gruppo che aveva poi formato assieme ad altre giovanissime, tutte sui vent’anni (un quartetto formidabile, quello formato da Fumiyo Ikeda, Michèle Anne De Mey e Adriana Borriello oltre alla stessa coreografa), dopo l’esperienza formativa del Mudra di Béjart e un soggiorno newyorkese capace di farle amare la musica ripetitiva di Steve Reich. Ragazzacce sfrontate, lei e le sue compagne, vestite tutte uguali in scena e nella vita con quegli scarponcini neri e le gonne corte che poi sarebbero dilagati come una divisa metropolitana, bucando anche i confini di più di una generazione. E minimale era anche la trama dei passi dentro cui si scioglievano i piccoli gesti quotidiani, ma con un impegno fisico tirato fin quasi alla spossatezza. Quasi a opporre un gratuito dispendio di energia alle leggi di economia del mondo com’è.

    Oggi Anne Teresa De Keersmaeker è una delle capofila del teatro di danza. In residenza al teatro della Monnaie di Bruxelles da più di dieci anni e di casa sui principali palcoscenici internazionali, non a caso a ospitare e coprodurre lo spettacolo, qui a Parigi, è il prestigioso Théatre de la Ville. Non danza più, tranne qualche significativa eccezione come il bellissimo solo Once di qualche tempo fa. E al piccolo gruppo tutto femminile degli inizi si è sostituita, sotto la medesima sigla, una numerosa compagnia multinazionale, che le permette di variare l’organico in scena, come avviene in quest’ultimo lavoro.

    Quasi tutto femminile è ancora quello di Raga for the the rainy season, nove elementi, l’unico uomo veste lo stesso abito delle altre, tutto in bianco, una gonna drappeggiata, una maglietta. Scena nuda, contornata da una bassa parete perimetrale, su cui si proiettano dal basso le ombre dei danzatori. Un grande faro sta calato sul palco, appena un po’ decentrato, inutile se non come misterioso oggetto totemico della spettacolarità, destinato ad essere sollevato per funzionare nel brano successivo. Entrano un po’ alla volta, con gesti rallentati, poi restano lì, spostandosi contro le pareti, dai lati, quando non sono impegnati. A volte generando un sentimento di esclusione. La danza si sviluppa infatti come una costellazioni di assoli, o in duo o in trio, soltanto a tratti e nel tempo producendo movimenti più corali. Con alcuni passaggi ripetuti, come il lento sollevarsi del braccio teso che determina il centro di rotazione del corpo, in un movimento circolare assunto a sigla della coreografia.

    Sono quattro invece, due coppie ugualmente vestite di bianco, gli interpreti di A love supreme. Quattro come i membri del mitico quartetto di John Coltrane negli anni Sessanta (McCoy Tyner, Jimmy Garrison, Elvin Jones, una leggenda). Del quale, lo si capisce ben presto, ciascuno dei danzatori interpreta uno strumento. Entrano in gioco in sincronia con le note, duettano fra loro, come fanno sassofono e pianoforte, contrabbasso e percussioni. Ciascuno ha il proprio assolo, che conduce a un nuovo dialogare in crescendo. Con una danza necessariamente più fluida, più vicina al ballo. Giacché l’intento dichiarato è quello di tradurre in movimento la fusione dei quattro grandi musicisti, come l’artefice aveva fatto di recente con un altro capolavoro della musica jazz, l’elettrico Bitches Brew di Miles Davis. Molto piacevole, stilisticamente perfetto, un po’ prevedibile. E forse sta qui quel vago senso di rimpianto per quella giovinezza sfrontata.

     

     

     

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