• La pistola di Čechov non spara più. Dead Centre al festival Vie

    È noto il principio drammaturgico stabilito da Čechov secondo cui se al primo atto entra in scena una pistola, all’ultimo deve sparare. Non c’è dubbio che questo abbia in mente il regista che all’inizio, pistola in mano, sale sul palco per invitare gli spettatori a usare le cuffie che hanno trovato ai propri posti, se vogliono ascoltare insieme alle voci degli attori anche i suoi commenti. È un testo ambizioso e complicato – dice, questo primo dramma di Čechov. Sembra che contenga tutti i suoi lavori successivi. Servono delle spiegazioni. Per esempio la pistola che tiene in mano… Ma di questa si parlerà dopo…

    E infatti all’aprirsi del sipario davanti alla facciata di mattoni rossi di una grande dimora di campagna, eccolo spiegarci dove ci troviamo e chi sono i personaggi che uno alla volta si dirigono verso la tavola imbandita all’aperto con l’inevitabile samovar. I protagonisti della pièce vestono i costumi dell’epoca e fanno quello che di solito fanno i personaggi cechoviani. Fumano, bevono, si addormentano sulle sedie, c’è sempre qualcuno che suona la chitarra e canta. Soprattutto chiacchierano. Di quel che si voleva diventare e non è stato, del tempo che scorre, di storie sentimentali e dei debiti che incombono…

    In realtà sono due, Ben Kidd e Bush Moukarzel, i registi della giovane compagnia irlandese Dead Centre che incontriamo per la prima volta con questo loro sorprendente Chekhov’s first play, al Teatro Comunale di Modena per il festival Vie. Il primo dramma di Čechov è la giovanile “commedia senza titolo” ritrovata fra le carte dello scrittore, più spesso nota con il nome del suo protagonista, il misterioso Platonov. Ha attratto nel tempo molti creatori, ne ricordiamo allestimenti anche geniali da quello geometrico di Patrice Chéreau a Lev Dodin che l’ambientava intorno a una grande piscina. C’è già delineato infatti nel suo disordinato intreccio il cuore del mondo cechoviano. Quella sua provincia annoiata, divisa fra una aristocrazia in declino e una nuova borghesia famelica, fra eroici furori e melanconiche disillusioni.

    E poi c’è Platonov appunto, nel dramma di Čechov. L’uomo che amava le donne, potremmo dire, ma senza intenzione. Seduttore per caso, o per ispirazione, per un segreto bisogno di corrompere ma sempre lesto a tirare indietro la mano. Niente cerca perché niente l’interessa nell’altro. Seduce come litiga col mondo intero, per bisogno di affermare il proprio spirito, la propria finezza nei confronti della supposta volgarità che lo circonda.

    Che però sia questo mondo, e il suo protagonista, a interessare Dead Centre, c’è da dubitarne. E il meccanismo del commento, che si innesta sul poco che resta di un testo fatto a brandelli fino a escludere qualsiasi possibilità di una ‘trama’, rischierebbe di trasformarsi in un ripetitivo meccanismo comico. Se non avviene è perché a un certo punto i due registi danno letteralmente un colpo alla struttura che hanno costruito. Scende una enorme palla da demolizione che oscillando distrugge il muro centrale della magione come nella Prova d’orchestra felliniana. E con la casa cade a pezzi anche quel mondo tenuto insieme dallo svagato gioco sociale inscenato. La petulante voce del regista si allontana e dalla platea si alza un giovane in jeans che prende su di sé, metaforico spettatore qualsiasi, il ruolo di Platonov.

    Non dirà una sola parola ma la sua presenza in scena è il detonatore che fa esplodere un mondo dove ormai è diventato impossibile mettere ordine. Da dove già arriva l’appello alla sola salvezza possibile: andarsene. Ciò che in effetti racconta lo spettacolo è il collasso del dramma di Čechov determinato dal crollo del mondo che lo sottende. Parte una musica che trascina nella danza. Come un esplodere di opera rock, da Čechov horror picture show. I costumi si sfaldano fino a lasciare gli interpreti in mutande. Compaiono flebo di vino e arriva il ragazzo delle consegne a domicilio ancora con il casco in testa e un martello pneumatico attacca un altro lato della casa. Qualcuno ha un chiaroveggente infarto. La moglie di Platonov si abbatte sul tavolo prima di spogliarsi della protesi che mimava la sua avanzata maternità. Nei dialoghi si sente parlare di cucina cinese e carte di credito, David Bowie e Marina Abramović.

    Alla fine si ritrovano tutti seduti intorno al tavolo, a sfidare la sorte alla roulette russa. Ma a questo punto torna il regista, a dire che no, questa sera la pistola di Čechov non sparerà. I suoi personaggi devono fare qualcosa di ancora più difficile che morire. Devono continuare a vivere. Malgrado la confusione che hanno in testa. Destino comune, è facile aggiungere.

     

    © Gianni Manzella

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