Che cosa sono le nuvole, si chiedevano davanti alla straziante bellezza del creato le marionette di Otello e Iago, Totò e Ninetto Davoli nel film di Pasolini, fatte a pezzi dagli spettatori e buttate nella spazzatura. Sostanza mutevole, instabile, imprendibile, quella delle nuvole. Non pare che richiami la forma di un cammello? O piuttosto una donnola… non pare una balena? È Amleto questa volta a rilanciare la domanda che Polonio non comprende. Da questo interrogarsi sull’incertezza e la mutevolezza di ciò che ci appare, parte Eugenio Barba che ha intitolato appunto Le nuvole di Amleto l’ultima creazione realizzata con l’Odin Teatret – vista all’Arena del Sole di Bologna, prodotta da Ert e Tieffe Teatro, dal 2 maggio sarà alla Biennale teatro di Venezia.
Ogni nuovo spettacolo di Eugenio Barba è da tempo come lo sfogliare un album di famiglia, un ritrovare cioè qualcosa di familiare, un pungere la memoria per vedere cosa ne viene fuori, un ritorno a un paese tante volte frequentato. La compagnia, l’Odin Teatret, nel tempo si è di necessità in parte rinnovata; da poco più di un paio d’anni c’è stata anche la separazione dal Nordisk Teaterlaboratorium, il “teatro laboratorio nordico” che Barba e i suoi attori avevano fondato a Holstebro a metà degli anni Sessanta del secolo scorso. Qui i sei attori in scena appartengono a tre diverse generazioni, da Julia Varley e Else Marie Laukvik che c’erano già allora, in mezzo a quei ventenni che i teatri mainstream dell’epoca rifiutavano, scendendo per gradi fino ai più giovani di oggi.
Ecco allora davanti a noi lo spazio centrale che si allunga fra le file degli spettatori che si fronteggiano, a un’estremità siede anche l’artefice che all’inizio ha distribuito i posti, primo spettatore dei suoi spettacoli, sempre uguale a come lo avevamo conosciuto tanto tempo fa. I due capi dello spazio scenico sono i poli fra cui oscilla il ritmo pulsante dello spettacolo, individuati figurativamente dagli alti panneggi che chiudono alla vista una sorta di spazio privato, dove si rifugiano gli attori quando non sono impegnati in scena; ma fungono anche da schermo di proiezione per le immagini che accompagnano a tratti l’azione. All’inizio sono fiamme che si alzano verticalmente, qualcosa sta idealmente bruciando. Nella penombra si scorge al centro il lettino di un bambino posato su un tappeto. Giacché questo spettacolo è dedicato a Hamnet, il figlio di Shakespeare morto undicenne, assunto a simbolo dei “giovani senza futuro”.
Foto di Francesco Galli
L’ingresso degli attori è una sorta di presentazione. Vestono tutti costumi molto colorati che portano il segno del sovrapporsi e contaminarsi dei luoghi e tempi di cui intessuta la lunga vicenda artistica dell’Odin. Gilet mantelli cappelli. Gonne colorate dai fitti disegni. Una giacchetta damascata colore oro. Amleto e Ofelia (Jakob Nielsen e Antonia Cioază) entrano danzando al suono di un violino il trotto dei cavalli. Claudio e Gertrude (Ulrik Skeel e Rina Skeel) non possono trattenere l’attrazione che li spinge l’uno verso l’altra, lei che sembra la regina cattiva di Biancaneve. E c’è anche nel mezzo il fantasma mascherato del vecchio defunto re (Else Marie Laukvik) che chiede al figlio di vendicare la sua uccisione. Eredità non facile da accettare.
Ma a imporsi, anche visivamente, è la figura del narratore e un po’ capocomico che ha il compito di far rivivere la storia che tante volte abbiamo ascoltato. Qui è Julia Varley che quel ruolo di narratore aveva già assunto in un lontano Ur-Hamlet, ispirato all’antica cronaca di Saxo Grammaticus, archetipo del dramma del drammaturgo elisabettiano. Ma se di quel lavoro la memoria ci restituisce soprattutto l’esplosione colorata della teatralità che superava i confini geografici e mescolava le culture, un Teatro del mondo dove si imponevano i passi, i suoni, i colori dell’antica arte scenica dell’isola di Bali, qui tutto invece sembra diventato più nero e cupo, in maniera irrimediabile. Sarà anche la suggestione delle musiche che accompagnano le immagini proiettate. Quel lamentoso coro di matrice folclorica di un ensemble femminile formato da cinque sorelle moldave che richiama antichi riti agresti. O quel Born to be wild che si fa largo nel ritmo lugubremente festoso di una banda di fiati romena.
Foto di Francesco Galli
Quando il narratore prende in mano il grande libro e passa di fronte agli spettatori, si apre uno specchio in cui per un attimo è possibile riflettersi. Come per dire che la fabula riguarda ciascuno di noi. Che luminosa opera d’arte è l’essere umano e però in questo paese c’è del marcio. Il mondo è impazzito. E quei bambini nella guerra dovrebbero smuovere la coscienza dei bellicosi drogati dall’odore delle armi. Vittime comunque, ci dicono le immagini proiettate. Sia che maneggino quei fucili fuori misura per le loro braccia, sia che ne vengano colpiti.
Fra balli e salti la vicenda scivola verso la cruenta conclusione e tocca al narratore assumere il ruolo del becchino. Quel “to be or not to be” che prima s’era già insinuato in mezzo alla sarabanda degli attori ora in bocca a Ofelia diventa un più pacato disteso “essere o non essere è questa la domanda”. Amleto non insegue più le nuvole e lei getta per aria il ventaglio delle lettere scambiate con lui. Lo spettacolo si chiude con una doppia immagine cristologica, la Pietà che prende forma ai due capi della scena, Claudio abbandonato fra le braccia di Gertrude e Amleto fra quelle di Ofelia. A dirci forse che l’unica speranza è da sempre in questo abbandonarsi al femminile, mentre la voce di Lisa Gerrard intona la danza degli spiriti dei Dead Can Dance. Ma no, siamo a teatro. Gli attori si rialzano, e ringraziano gli spettatori augurandosi che abbiano gradito lo spettacolo. Poi escono di scena e non ritornano a prendere gli applausi, com’è antica tradizione dell’Odin.
© Gianni Manzella