• L’Ovulo di Lenz Rifrazioni. Conversazione con Maria Federica Maestri

    Ovogenesi è il processo di produzione delle cellule uovo, dall’andamento ciclico. L’ovulo, fecondato o non fecondato procede in modo rizomatico, per multipli. OvulO è anche il tema concettuale della XVII edizione di Natura Dèi Teatri, Performing Arts Festival ideato da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, gli artefici di Lenz Rifrazioni. Nel dicembre 2012, in occasione di ND’T XVII, l’ovogenesi di Lenz ha dato alla luce due progetti artistici: Pentesilea, dalla drammaturgia tardosettecentesca di Heinrich Von Kleist, e Aeneis in Italia, secondo nucleo di un progetto biennale sul poema epico virgiliano, inaugurato l’anno precedente con Aeneis. L’identità di Pentesilea sta nella forma monologante di un essere dalle femminilità multiple e contrastanti, all’interno di un processo di liquefazione identitaria. Aeneis e Aeneis in Italia sono la bipartizione di un unico processo di ovogenesi riguardante la latinità, da cui prende vita una sostanza chimica performativa di durata biennale. Si tratta di una struttura transitoria, fatta di giustapposizioni, in cui centrale è la questione del genere. Maschile e femminile sono termini scivolosi di un processo corporeo di andate e ritorni. Maria Federica Maestri ci ha parlato di quest’indagine sull’identità macrocellulare delle ultime due creazioni artistiche di Lenz Rifrazioni.

    Partiamo dal lavoro compositivo per Pentesilea.

    Pentesilea è un ritorno. La prima volta che ci siamo messi alla prova con questo testo kleistiano risale alla metà degli anni Novanta, dopo i primi quattro grandi progetti pluriennali dedicati a Lenz, Majakovskij, Dostoevskij e Hölderlin. È un tempo molto lungo durante il quale, necessariamente, sono maturati i processi creativi e compositivi, e le intuizioni si sono trasformate in scritture. L’indagine sulla drammaturgia kleistiana è immediatamente successiva alla lunga ricerca sul tragico, la drammaturgia dell’estremo, condotta sull’opera hölderliniana. Ed è forse a causa di questa contiguità temporale che la visione tragica di Hölderlin ha infettato, contagiato il nostro lavoro su Pentesilea, determinando una condizione creativa patologica, scompensata sia dal punto di vista della drammaturgia, sia da quello del disegno scenico e attoriale – il lavoro viene infatti presentato in tre diverse versioni e con tre nuclei attoriali differenti. Pentesilea si iscrive nella nostra vita artistica in qualità di ‘ferita’, e lì rimane per molti anni in dolorosa sosta. E da qui rinasce.

    Questa ripartenza mette in gioco un nuovo approccio al testo kleistiano. Potresti toccare questo aspetto?

    Pentesilea è la gloria del non-atto, la gloria del non succedere. Niente è meno teatrale di un non-atto: è per questa inefficienza che il testo è straordinariamente potente. Tanto più se si pensa al contesto in cui prende vita, a cavallo tra Settecento e Ottocento, periodo storico in cui l’unità tra pensiero e azione costituisce la dottrina filosofico-morale per modificare il mondo. L’intero impianto drammaturgico-esistenziale di Kleist si esprime al contrario nella dimensione di dépense, di slittamento, di erroneità, un compimento senza compiutezza: svenimento, perdita di senso, scivolamento. Fedeli alla natura ‘mostruosa’ dell’opera, il dettato artistico ci ha imposto di scivolare nella liquidità drammatica del testo e di tradurre il suo nucleo concettuale in un “divenire-l’Anomalo”. Essere il Mostro in una totale dedizione allo spirito dell’autore. Come nel primo progetto degli anni Novanta, l’identità testuale è stata ghigliottinata, il personaggio è stato vivisezionato in più parti, e del cadavere è rimasta la testa – la parte per il tutto – la ventiquattresima e ultima scena.

    Quali sono i processi che sottendono all’esito scenico di questo lavoro?

    Dopo molti anni di lavoro si diventa degli accumulatori, come quelle persone ossessionate da centinaia di oggetti conservati gelosamente nella propria casa. I testi sono gli ‘oggetti’ da cui è impossibile separarsi; rimangono impilati, catalogati, riposti, in attesa di essere nuovamente riutilizzati. La memoria è aneddotica e infedele – ma il lavoro artistico crea nel tempo una biografia espansa composta di testi drammaturgici e visivi, un accumulo di testualità. Pentesilea scaturisce dalla necessità di una riscrittura vendicativa, in una dimensione formale assolutamente incompatibile con le prime edizioni degli anni Novanta. Più che una riscrittura, è meglio parlare di una r-iscrizione, una scrittura dentro le pieghe del testo. L’unico elemento rimasto inalterato è la struttura drammaturgica: il prologo iniziale, l’attraversamento degli sguardi su di sé, un Io che si guarda allo specchio, ma che a sua volta viene guardato. A questo proposito, non abbiamo mai pensato che nel lavoro di Kleist si possa parlare di personaggi: si tratta piuttosto di funzioni-emanazioni dell’Io che si guarda, in un testo che non si compie in un presente organico, ma in un insieme di visioni inorganiche. Il lavoro è scaturito da un dialogo intenso tra me e la performer Sandra Soncini, per elaborare una processualità che coniugasse le nostre differenze: “il pensiero ‘fa’ la differenza, e la differenza è il mostro”. È stata un’immersione profonda nella distanza tra il suo motus attorico e la mia necessità di configurare la funzione dell’attore in quella di trasduttore – capace di trasmettere forza e potenza attraverso la sua esistenza psichica. E questo antagonismo ostile e amorevole ha trovato il punto di polarizzazione in un dispositivo scenico in cui niente permane, in cui tutto è scivoloso: un dispositivo tecnologico ostile, il Mac e la sua telecamera.

    Il Mac in scena è una sorta di rifrattometro, strumento ottico per determinare l’indice di rifrazione di una sostanza, che in questo caso è l’identità. In che modo il dispositivo tecnologico tanto attuale riporta in scena le dinamiche kleistiane?

    Gli aspetti su cui riflettere sono due: riconoscere il non-tragico di Pentesilea attraverso l’auto-ammaestramento. Guardarsi allo specchio non è tragico, è semmai drammatico. Lo specchio non ti nega, continua a riprodurre drammaticamente ciò che sei, in un loop perenne di liquefazione identitaria. E questo loop di memorie – alcune già registrate, altre gestite dalla performer in real time – non hanno in questo senso possibilità di invenzione. Questo è il secondo nucleo scenico: non esiste una reale inventio, perché non c’è fiaba, non c’è tragico, non c’è peripezia. Abbiamo realizzato una trasposizione visiva dell’habitat corporeo nel passaggio dal micro al macro, ovvero abbiamo esaltato l’insignificante, il minuscolo, in un macro-minore non pittorico, non iconico, né simbolico. Una restituzione della propria immagine povera, ‘sporca’, comunicativa e non artistica: una de-gradazione, un abbassamento della qualità espressiva dell’immagine. Come se il pieno riconoscimento della soggettività non dovesse essere in alcun modo auto-celebrativo. Il motus attorico viene fatto a pezzi dal controllo meccanico, in una oscillazione perenne tra patimento e apatia. Lo strumento, l’autocontrollo ‘nel mezzo’, è stato necessario per tendere a una redenzione estetica dell’io.

    L’orizzonte visivo auto-controllato e mediato tecnologicamente in scena, il cui specchio sono le video-proiezioni, chiama in causa la dimensione corporea. Lo spettatore è calato in uno spazio in cui l’unica forma di vita è un corpo maturo, femminile, sinuoso e pieno. Direi che si può parlare di un vero e proprio dispositivo corporeo, che interagisce e si scontra con quello della macchina. Potresti soffermarti su questi aspetti?

    Solo scorniciando la superficie profonda dell’emotività attorica femminile si può penetrare pienamente nello spirito kleistiano: Pentesilea è emblema di trasformazione, è un corpo che transita attraverso i sessi per oltrepassare la soglia dell’umano e per provarsi nella natura del bestiale, di cagna. Il suo corpo in divenire, trasgredendo la fondamentale norma dell’appartenenza di genere, è capace di vera A-nomalia. Questa anomalia ci ha indicato una traduzione scenica, in cui convergere e fondere meccanicità e patologia. La macchina crea uno stato patologico: determina un condizionamento tecnico in grado di negare l’autonomia artistica dell’attrice. La seconda disfunzione causata dalla macchina è la sua infinita capacità di essere archivio di memorie visuali e sonore: un deposito di cronicità, un’accumulatrice di immagini e parole. Non si tratta di un accumulo estetico in esibizione, ma di un album di ricordi, visioni private che non dovrebbero essere mostrate all’esterno, all’estraneo. Non si tratta di un’architettura visuale stratificata, ma piuttosto di un arredamento, un corredo intimo, indispensabile e insignificante come l’oggetto domestico. L’apparente condivisione dello strumento con lo spettatore e allocarlo in momentanea società – un’occasionale social community – nega in realtà qualsiasi possibilità di dialogo e contatto con l’osservatore. La ricerca di una gloria autoreferenziale deve essere agita individualmente e in totale solitudine. Nella sequenza finale del suicidio, a essere esposto all’occhio della webcam non è più il volto, ma il basso ventre della performer. Il suo corpo è in stasi disorganica, la postura verticale esibisce un volto umano privo di valore segnico, non più inquadrabile e quindi inutile a definirne l’identità, mentre il ventre – rigonfiamento anonimo di un corpo qualsiasi – conquista la dimensione di vuoto, l’annullamento di sé. La perdita della propria soggettività è il vero trionfo della Pentesilea klestiana.

    Vorrei approfondire la questione dell’immagine: il glorioso, il corpo femminile, la presenza delle protesi attoriali, quali il fazzoletto rosso sangue e il bicchiere d’acqua. Qual è la loro funzione drammaturgica?

    La gloria è un cammino e il cammino è un martirio di sé. L’orribile non è categoria estetica, è una contorsione dell’io morale. La scelta di abdicare al proprio volto e raffigurare la trasformazione in un viso/ventre volutamente non adolescenziale, di donna matura, esprime un femminile senza particolarità. Nella distruzione del ritratto – in questa sua cannibalizzazione tecnologica – si attua il culmen di Pentesilea: il pensare anomalo è corpo di Nessuno e si visualizza in un manierismo senza abbellimenti. L’intento è quello di naufragare nella liquidità del mezzo tecnico, che è in grado di riprodurre in continuum il balbettio psico-fisico dell’attrice. Il corpo ingerisce la propria immagine: l’irregolarità del proprio viso e l’indecenza della propria bocca, che confonde baci e morsi, rivelano una deformità banale. Il corpo di Pentesilea deve essere fatto a pezzi, perdere i segni distintivi della propria identità, qui sta la sua gloria. L’immagine di una donna a metà, la cui parte maschile non è un altro/fuori da sé, ma il dentro e il dietro di sé: la propria schiena. Nella lotta tra sé e il sé, l’antagonista è visibile solo nell’unità delle parti. Questo farsi parte nel genere è reso evidente dalla fisionomia corporea: l’eccesso delle mammelle, del femminile frontale, si unisce alla qualità maschile della rigidità del dorso. In questo processo si inseriscono gli oggetti scenici, che preferiamo chiamare protesi, prolungamenti a sostegno del corpo mutilato.

    Dal progetto monologante di Pentesilea si passa a un progetto corale, uno spaccato epico dell’oggi, qual è Aeneis in Italia. Come si è articolata la creazione di questo affresco scenico?

    La creazione della seconda parte dell’Eneide ha richiesto un lavoro lungo e drammaturgicamente più complesso. Non era possibile innestare nel nuovo corpus epico oggetti amati del passato, materiali testuali e visivi dei lavori precedenti. Dovevamo lasciare i luoghi conosciuti per seguire una nuova direzione in un’alternanza costante tra costruzione e de-costruzione, tra consapevolezza della lingua e innocenza dell’inizio, mantenendo però un ponte, soprattutto nel disegno dello spazio scenico, tra i primi sei capitoli – la peripezia di Enea – e i secondi sei che riguardano il conflitto per l’edificazione della patria, Aeneis in Italia.

    Vorrei ripercorrere con te questo transito, in un’ottica che permetta una lenta digestione del processo creativo. I due blocchi del progetto biennale, Aeneis e Aeneis in Italia, rispondono di una processualità a tappe e non di un’operazione sommatoria di nuclei scenici distinti. Qual è stato l’approccio a un materiale drammaturgico così vasto?

    I primi sei episodi – Aeneis – delineano le grandi funzioni generatrici. Abbiamo definito una struttura genealogica, un viaggio dentro la familia. Oscillazioni cerebrali, linee di fuga corporali, raddoppiamenti rinomatici – esemplare in questo senso la figura mobile della figlia-amata-madre-amante – tesi a costruire una autoritas drammatica riconoscibile. Abbiamo ricomposto lo scheletro epico, privato della superficie somatica della narrazione, puro e scarnificato, ma con una evidente volumetria mitico-simbolica. Poi Aeneis in Italia. Non avevamo appigli testuali, in quanto l’opera virgiliana reitera ossessivamente lo stesso schema compositivo e la stessa dinamica narrativa. Di fronte a noi, una pagina plurale su cui ricomporre da zero l’impianto drammaturgico, scenico e visivo. L’attivazione dei processi creativi ha richiesto un tempo più lungo e si è delineata separatamente su cinque piani testuali: verbo fisico, architettura di parole, imagoturgia – processo di composizione dell’immagine visiva –, spazio installativo, suono. Nella prima fase di lavoro abbiamo disteso i materiali molecolari, per farli convergere in una fase successiva. Il primo approccio alla vastità del corpo virgiliano è stata la lettura completa dell’opera: per oltre un mese abbiamo registrato la performer Valentina Barbarini nella lettura dell’Eneide, in una dimensione meditativa di ri-ascolto in cuffia. Poi abbiamo creato l’indice, ovvero abbiamo indicato sei moti concettuali e li abbiamo titolati. Non si è trattato di tradurre in titolo il contenuto dell’episodio, bensì di individuare dei ‘frutti’ lessicali anti-descrittivi, per “snidare”, in ciascun capitolo, un’interrogazione tematica convincente. Se penso all’episodio #11 La Piccina, il titolo tematizza quello che nell’undicesimo libro è un brevissimo cenno alla sorella di Turno (l’antagonista di Enea): è sicuramente un passo minore, insignificante rispetto al contenuto narrativo del libro, ma che nell’abnormità retorica dell’Eneide ritraccia un campo concettuale inaspettato: la potenza del minuscolo. I sei titoli sono tessere di un mosaico non più riproducibile, micro-segmenti che non hanno più nessuna relazione col contesto di partenza, ma che emanano luce e densità concettuale.

    Il materiale virgiliano si contamina di quattro testualità eterogenee: Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, lo schema della seconda parte de Le 120 giornate di De Sade, le barzellette di Gino Bramieri, i comunicati e le autointerviste delle Brigate rosse. La dimensione testuale trova così un’identità ben definita, in qualità di struttura paratattica a blocchi. Potresti approfondire questo processo di contaminazione testuale?

    Nella fase di distensione concettuale individuiamo le derive testuali, cioè le macrocellule letterarie da cui originare, attraverso i nostri filtri biografici, il ‘dicibile’ scenico. In Aeneis in Italia al centro dell’indagine drammaturgica sta l’individuazione delle retoriche della violenza: il rapporto tra corpo e potere. Selezioniamo quattro linee di fuga: la prima linea riguarda le appendici alle 120 giornate di Sodoma di De Sade, concentrando l’attenzione sullo schema delle Passioni assassine, in quanto caratterizzate da una violenza anonima, grigia, monotona, ripetizione programmatica di un eros cadaverico. La seconda linea ripercorre le barzellette di Gino Bramieri – comico televisivo noto tra gli anni Sessanta e Settanta – che rappresentano una non scrittura, un non racconto, un non autore. Infatti, la barzelletta è oralità che mai deve riversarsi nella pagina scritta: in questa traduzione forzata, la funzione trasgressiva del verbo comico viene annullata e il narratore diventa un non Io, generando un totale svuotamento identitario del soggetto. Questa condizione di svuotamento letterario è fondamentale per rendere i performer entità in transito, funzioni in divenire, dunque esseri plurali tesi a incarnare l’anonimato originario dell’epos virgiliano. La rinuncia all’identità è il tratto fondamentale della seconda parte dell’Eneide; anche la figura principale del pater Aenea sfuma in una molteplicità nominale, mescolandosi alle centinaia di sub-eroi citati negli oltre seimila versi del poema. Dopo la lettura di Orgia – che non ha avuto conseguenze drammaturgiche – la rielaborazione di alcuni dialoghi della sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini è stata una pratica fondamentale per definire la struttura del lavoro. Oltre all’evidenza della critica pasoliniana al fascismo, la scrittura per il cinema esalta la banalizzazione verbale del male e toglie ogni lirismo alla violenza subita dalle vittime. Per attrazione cronica – patologico-temporale – abbiamo selezionato i primi documenti politici delle Brigate Rosse: attraverso un procedimento complesso di rammemorazioni e riscritture automatiche, abbiamo trasposto la risonanza retorica delle prime autointerviste in un codice gestuale ‘privato’ dei performer. In ambito drammaturgico rimangono solo delle ecchimosi superficiali, esito dei lunghi processi di interiorizzazione compiuti dagli attori. All’individuazione delle derive testuali è seguita la definizione del catalogo scenico: i sei quadri nominati dal titolo (#7 Il compenso, #8 Grigio Piombo, #9 Nipoti, #10 Vari attacchi, 11# La Piccina, #12 Spietato?) non formano una catena di narrazioni conseguente, bensì una struttura paratattica, con alcuni sottili riferimenti tematici funzionali all’orientamento dello spettatore. Il catalogo è composto di questi sei blocchi compatti e autosufficienti.

    La fase successiva del processo creativo riguarda la codificazione del materiale testuale nella dimensione corporea, nella dialogica dei corpi, manifesti estremi del divenire e indici di una continua morfogenesi. Come si è articolata la ricerca formale sul gesto, punto di caduta della stratificazione dei codici artistici?

    Ho lavorato per istituire un codice interno al gruppo dei performer, essenzialmente volto alla definizione dei gesti di gaudio e di dolore. Attraverso un processo di scomposizione delle parti – il rovesciamento delle funzioni delle membra – l’espressività convenzionale si modifica in un nuovo linguaggio che disconosce l’emotività del gesto trasformandolo in verbo fisico. Prendendo come esempio il Requiem di Mozart, abbiamo utilizzato le brevi frasi di crome ascendenti e discendenti del Lacrimosa per intonare la Communio. La composizione gestuale rimane in transito, nessun gesto rimane aderente al performer che lo ha creato, ma viene ri-innestato su un altro corpo e nuovamente de-locato in un’altra parte del corpo. Dopo questo processo di de-identificazione emozionale, il gesto si fa pura risonanza retorica. Questo linguaggio gestuale incorpora il corpo plurale, numerificato, serializzato, fatto a pezzi, violentato e depredato dell’Eneide e di De Sade. Il linguaggio gestuale del corpo pasoliniano, pur sempre anonimo e violentato, diviene nuovamente lirico nella passività relazionale della vittima che traduce la retorica dei gesti ideologici in un’ode al martirio. Il processo è molto stratificato, una composizione geologica a piani, aperta alla visione dello spettatore nella sua linea di faglia. Eppure in questo spostamento, determinato dalla presenza di una forza esterna – lo spettatore – i piani si mescolano e lo strato profondo riappare in superficie. La visione si compie in un’alternanza di immaginifico e oscuro, di ridondante e pittorico, di negativo e cromatico, in un pulsare ininterrotto di contrasti. In Italia, appunto.

    Vorrei approfondire il discorso sulla ricerca corporea che esplode nella figura androgina della performer Valentina Barbarini. L’androgino, soggetto polimorfo e in continuo divenire, si fa ponte tra la dimensione reale della presenza in scena e la presenza virtuale in video, gettando dunque le basi per un discorso sulla struttura spaziale installativa entro cui l’azione muove.

    Lo spazio-installazione è il ponte, l’elemento di transito dall’Ara Pacis di Aeneis alla notte scura di Aeneis in Italia. Gli ultimi sei episodi dell’Eneide sono domiciliati in un grande confessionale della storia, privo di assoluzione. Da una parte della grata sta lo spettatore che riceve i sussurri dei colpevoli, mentre dall’altra parte si intravedono le sagome dei perfomer, celate dal reticolo fitto e nero dei fondali retinati. Questi affreschi cutanei creano orizzonti spaziali pluridimensionali e parcellizzati, in analogia alla composizione a mosaico della drammaturgia. L’imagoturgia subisce una sorta di sottoesposizione causata dalla presenza di tre diaframmi differenti sui quali l’immagine è proiettata con uno scarto temporale di circa un secondo tra l’una e l’altra. Per colui che ha creato le immagini, Francesco Pititto, lo schermo nero è stato il luogo del conflitto. La questione dell’assorbimento, della mancanza di luce, della carenza di nitidezza, dell’impoverimento cromatico, ha condizionato e determinato la creazione dell’immagine. I rapporti tra la visione e il luogo della confessione hanno prodotto, senza tradimenti concettuali, un miracolo visivo: una natura morta contemporanea, in cui la raffigurazione degli elementi cromatici – la carnosità dei frutti presi a morsi e grondanti sui corpi – annerisce, coperta e sporcata dalle polveri del tempo. La natura morta si sovrappone alla fisicità anonima e polimorfa dei performer, senza alcuna conversazione funzionale. Il secondo flusso imagoturgico ha come oggetto del processo compositivo il rapporto tra visione mitica e immagine pornografica. L’immagine della lupa antropomorfa e androgina nell’atto di allattare i due uomini adulti – la generazione della nuova stirpe – viene creata in campo lungo, con un potente effetto di tridimensionalità e di sincronia con il movimento scenico degli stessi performer. La stessa immagine viene avvicinata – con la macchina a mano – e ripresa in dettaglio. La monumentalità plastica dei corpi viene de-gradata, l’intero viene fatto a pezzi e visualizzato solo in primissimi piani di mammelle e organi genitali maschili. Lo scivolamento tra la nudità del corpo concreto e il suo smembramento pornografico crea l’unico vero dialogo tra immagine e azione performativa. Questo avviene, non casualmente, nell’ultimo quadro (#12 Spietato?) che, chiudendo la fase del conflitto, avvia la fase di riconciliazione tra le parti in lotta. L’altro nucleo spaziale – interno agli spazi determinati dalle macro-retinature – è la piccola domus nomade che si muove da un diaframma all’altro, casa di mobilio in movimento, non amata, un peso di memorie da trasferire di posto in posto, di covo in covo. La domus ricrea di volta in volta il luogo in cui il corpo androgino di Valentina viene umiliato, in quanto corpo sessuato, corpo ideologico. È nel suo corpo che si compie il passaggio identitario, l’inesauribile divenire non “altro da sé”, bensì un “senza sosta oltre il sé”. Nel corpo stesso si compie, inoltre, il cerimoniale epico, nonostante i due elementi – cerimoniale e epico – confliggano.

    Per concludere, vorrei soffermarmi sul Festival Natura Dèi Teatri, di cui OvulO costituisce la prima tappa entro una progettualità di durata triennale – 2012/2014. A fine anno, infatti, prenderà vita la XVIII edizione ND’T, intitolata Glorioso. Guardando a Pentesilea e Aeneis in Italia, in cui il germe del glorioso è già in fermento, potresti rivelarmi cosa possiamo aspettarci dalla nuova edizione?

    Tra novembre e dicembre 2013 è prevista la realizzazione della XVIII edizione del festival Natura Dèi Teatri, il progetto di creazioni performative contemporanee internazionali ideate per il festival stesso. L’indagine sul linguaggio – il “Glorioso” – è una suggestione filosofica tratta dall’opera di Gilles Deleuze: in Artaud, la parola-soffio forza ulteriormente i limiti della lingua francese verso delle “pure intensità”, in corrispondenza con un corpo diseducato ai modi e ai gesti della quotidianità e teso verso lo stesso limite, per cui, attraversate le prime fasi sperimentali, egli aspirerà proprio a quel corpo senza organi, un “corpo glorioso”, alienato attraverso un’esperienza analoga a quella dei misteri orfici o eleusini, attraversato da grida e soffi. Declinando questa straordinaria intuizione di Deleuze, Lenz Rifrazioni muoverà la propria ricerca estetica penetrando, con la forza dei corpi gloriosi dei suoi attori sensibili, nell’opera fondativa della lingua italiana, ovvero I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Inoltre, verrà chiesto ad artisti italiani ed europei provenienti da ambiti disciplinari differenti – teatro, musica, danza, video, performance – di misurarsi con dimensioni creative al limite della lingua, alla ricerca della “pura intensità”.

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