• Dossier Màntica 2014.

    La settima edizione di Màntica, festival di spettacoli, musica, incontri di critica e laboratori curato dalla Socìetas Raffaello Sanzio, si è svolta a Cesena, negli spazi del Teatro Comandini, dal 4 al 10 dicembre. Pubblichiamo un’intervista a Chiara Guidi e una serie di interventi di un gruppo di studenti che hanno preso parte alle attività del festival, sotto la supervisione di Enrico Pitozzi.

    Leggere l’opera d’arte e ampliare lo sguardo.  Conversazione con Chiara Guidi

    di Neera Pieri

    Giunti alla settima edizione di Màntica, momento di riflessione sulla scena che accompagna da anni il tuo lavoro e quello della Socìetas Raffaello Sanzio, vorrei chiederti di mettere in luce le direttrici che lo orientano. 

    Bisogna innanzitutto guardare all’origine. Sette anni fa. Quando nacque questa pratica che chiamai Màntica (da quell’anno ogni autunno), feci al Teatro Comandini un prolungato laboratorio sulla voce, coinvolgendo sedici attori. Da quel laboratorio nacque Madrigale appena narrabile, una forma ispirata al tema del madrigale per sedici voci e violoncello. Fu un’occasione importante per approfondire lo studio sulle sonorità della voce: non solo come scuola per i partecipanti, ma proprio per sviscerare la questione in sé. Parlammo di una voce portatrice di significato, ma anche di una voce intesa come suono, con un immediato collegamento all’arte della musica. E dunque per poter sostenere questo laboratorio coinvolsi altri artisti chiamati in maniera un po’ particolare ad affrontare la questione della voce. Il lavoro partiva da qui: la voce, che per il teatro si mette ogni volta in relazione a un testo (perché non dobbiamo dimenticarci che la voce ha bisogno di un testo), è però musica in sé. La musica è un linguaggio e la voce non deve essere succube del significato del testo perché è prima di tutto musica. Questa era la questione e la scommessa. Per cui questi collaboratori furono chiamati per avvicinarsi in qualche modo, anche metaforicamente, a questo concetto di voce come suono. Ad esempio chiamai Lindo Ferretti, non per parlarmi del canto nei CCCP, ma per spiegarmi come addomestica i cavalli, che lui alleva. In questo caso la problematica era come addomesticare il testo. Per me intorno allo studio della voce come suono si diramavano delle presenze che costituivano una sorta di geografia, una sorta di alfabeto o grammatica, che anche indirettamente potevano affrontare questo problema. Fu allora che pensai che forse questo metodo, per analogia, potesse diventare una forma di festival, o meglio di incontro, con un pubblico. Fu in quell’occasione che presentai Madrigale appena narrabile, ospitai altre persone che lavoravano sulla voce in chiave musicale, e infine cominciò a tessersi questa pratica annuale. Nelle edizioni successive ci fu la stessa cosa: misi a fuoco un tema e intorno a quel tema cominciai a invitare persone che ancora una volta, in maniera o metaforica o per via diretta, potevano dare il proprio apporto di conoscenza. Il tema scelto sicuramente mi aveva coinvolta nella preparazione di uno spettacolo. Màntica nasce sempre dall’esigenza artistica del lavoro che io svolgo, perché ritengo che quando si tocca una materia questa generi un pensiero che va oltre la materia stessa e va oltre anche a chi la sta conducendo. Nell’ambito di Màntica si è creata una sorta di proliferazione del pensiero che racchiudeva non più solo la questione dello spettacolo, ma anche la sua fioritura.

    Parliamo di quest’ultima particolare edizione di Màntica, Stele di Rosetta, che rifiuta il nome di festival per definirsi osservatorio sperimentale e che vede come protagonisti gli studiosi, i filosofi e i curatori chiamati a dare lettura delle opere presentate. Un ruolo importantissimo, dato il tema di quest’anno, che ruota attorno alla leggibilità dell’arte. Da quale “urgenza” scaturisce questa svolta importante sia per il pubblico, ma anche per gli artisti?

    Parli di “urgenza” e la parola è esatta. Infatti mi sono chiesta: perché continuare a fare un festival? Io deludo le aspettative di un festival. Io non organizzo festival con spettacoli che si mostrano solamente per il fatto di mostrarsi; gli spettacoli che propongo hanno sempre una strettissima relazione con un pensiero che in quel determinato momento si sta articolando e possano richiamare il pubblico a una vicinanza con l’opera, e quindi a una sua conoscenza da un altro punto di vista. Allora mi sono detta che forse si doveva sostituire la parola festival con la parola osservatorio, anche per poter osservare l’opera mettendomi dalla parte del pubblico. Il fatto di avere uno spazio pubblico come il Teatro Comandini mi porta a pensare spesso alla comunicazione del teatro: a come richiamare il pubblico a una riflessione sulla vita nel momento in cui si tocca l’arte. Una questione molto complessa da sostenere per cui sono necessarie delle figure intermedie, ovvero che abbiano uno sguardo intermedio fra il pubblico e l’artista. Quindi ho pensato di creare un osservatorio dove i protagonisti potessero e dovessero essere i critici, gli studiosi, gli insegnanti e i filosofi: persone che in qualche modo inventano un linguaggio per porsi di fronte a un’opera. L’idea era non lasciare che l’opera semplicemente si imponesse ai sensi, ma apporre un accento sulla responsabilità del pubblico. Essi, chiamati a conoscere il pensiero di uno studioso intorno a una figura artistica, assumano al contempo la responsabilità di una conoscenza più allargata e consapevole. Questo anche rispetto a una conoscenza “sensoriale”, che tuttavia si possa avvalere di una conoscenza storica. Ritengo che sia anche questo il lavoro dell’artista. Per me affrontare il Macbeth significa non solo avere una visione di Shakespeare, ma anche assolutamente conoscere tutto quello che è stato studiato, scritto e prodotto intorno a quest’opera. Senza però mettere in scena in miei studi, ma la mia idea. Anche nel caso del pubblico è così: è possibile uno sguardo critico, e l’invenzione di un linguaggio critico, solo se questo si inscrive nel solco della tradizione e la interpreta, dunque la tradisce. Parlo di interpretare nel senso di tradire, ovvero etimologicamente mettere da un’altra parte quella tradizione, quindi proseguire quel solco con un andamento obliquo per poterla spostare da un’altra parte. Con una visione che è l’invenzione di un linguaggio. Interpretare è un’altra parola fondamentale di questo Màntica. Interpretazione sia da parte del curatore che in qualche modo si faceva garante di questa forza che passava dall’opera al pubblico e dal pubblico all’opera, sia da parte del pubblico e dell’artista che con la propria idea contribuisce a creare un ulteriore punto di vista.

    Anche i laboratori proposti all’interno di Màntica sembrano essere concepiti per allargare lo sguardo dei partecipanti/pubblico nei confronti dell’opera e dell’artista con cui si svolgono. È così?

    Certamente, perché da sempre il laboratorio è stato il centro di Màntica. Da sempre questa pratica ha tenuto i laboratori come cuore pulsante, come nucleo caldo. Proprio affinché il pubblico potesse toccare con mano la fucina di creazione. È proprio questa la caratteristica di Màntica che non è mai cambiata, ed anzi si è esasperata fino a diventare solo osservatorio. Infatti i laboratori di quest’anno hanno previsto il contributo attivo degli studiosi, che hanno ampliato l’esperienza dei partecipanti. Màntica è concepito come un percorso conoscitivo nella sua interezza.  Il mio desiderio è che da percorso diventi una scuola permanente, una sorta di accademia dove l’ambito di un festival è qualcosa che ha una durata nel tempo. All’interno di questo luogo di studio sia possibile al contempo un’elaborazione, il fare, e la verifica di questo fare, per poi metterlo a confronto con altre opere e altri artisti.

    A questo punto vorrei citare un’annotazione a piè pagina, trovata sul libretto del programma di Màntica: “Quando J.F. Champollion finì di decifrare faticosamente i geroglifici sulla stele di Rosetta, Schlegel disse che questa scoperta avrebbe immiserito l’arte combinatoria della fantasia”. Fino a che punto si deve dare importanza alla leggibilità prima che intacchi il valore dell’interpretazione?

    Ho chiuso Màntica pensando che la leggibilità è inutile. Sebbene contraddittoriamente (ma è interessante il contraddittorio nell’esistenza), spesso è indispensabile una lettura. Come ad esempio per la Storia: ci viene richiesto necessariamente di leggere la Storia nel rispetto delle misure spaziali e temporali di un fatto storico, e questo non si può dimenticare. Ma la cosa sostanziale è il sentire. Io ho assistito ai concerti e agli spettacoli di Màntica, e mi sono accorta che l’emozione che provavo durante l’ascolto e la visione era più forte, a livello di conoscenza, di ogni possibile ragionamento. È qui che agisce il riconoscimento che ci permette di leggere l’arte con la vita, e di sentirci investiti sul piano dell’esistenza. Questo è ciò che rende la tragedia una forma d’arte e che può, a volte, sospendere il ragionamento. Tuttavia non lo si può annullare, perché abbiamo necessità di un fondo teorico, di pensiero. Si deve assumere e conoscere in maniera verticale. Non possiamo essere ignoranti della Storia che ci ha preceduto. Eppure esiste un pubblico che pur essendo ignorante, per la sensibilità che ha, è più sapiente del sapiente. Non vi è una risposta univoca: è possibile in entrambe le direzioni affrontare il discorso della leggibilità. È leggibilità anche quella che si esime da un discorso critico e teorico.

    Come descriveresti la reazione degli artisti nel momento in cui sono stati chiamati a discutere della propria opera? 

    Gli artisti hanno avuto una reazione di ritrosia comprensibile: è stata dettata dal timore di toccare il proprio linguaggio. L’opera dice già tutto, perché dire altre cose? C’è sempre in un certo senso una violenza in atto nei confronti dell’artista quando viene chiamato a dover dire: in questo caso abbiamo visto molto pudore.

    Questo osservatorio, che potremmo definire scuola, arricchisce unicamente la visione del pubblico o si riflette anche sulla visione degli artisti?

    Ci troviamo a teatro: qui il pubblico è costitutivo. L’artista ha bisogno del pubblico, così come un interprete musicale ha bisogno di orecchie che ascoltino. L’interpretazione più diretta, quella a livello esperenziale (sia per un attore che per un musicista) cambia molto rispetto al fatto che la platea sia vuota e quindi l’azione sia puro esercizio, o che vi siano spettatori. Parliamo di energia, di presenza umana. In fondo il teatro nasce come comunità del sentire: la società nell’antica Grecia si ritrovava a teatro e vi partecipava numerosa; vi era persino un fondo comune di denaro che veniva utilizzato da coloro che non potevano permettersi di partecipare agli agoni tragici. Questo fondo di monete si chiamava fondo teorico. Non si parla di un pubblico che viene a teatro per essere intrattenuto, né per vedere qualcosa che gli viene illustrato. Viene a teatro perché, sebbene vi sia una forma che retoricamente ha un inizio, un corpo e una fine, questa è data in modo tale che la sua struttura sia in realtà lo spazio della nascita, dell’apertura. L’opera però necessita di una sorta di fatica del pubblico. È qui che serve l’intuizione e la riflessione dello spettatore. Il finale non è in realtà un finale, ma retoricamente è un inizio di un nuovo pensiero e di un nuovo linguaggio. Oppure l’inizio di un allontanamento totale da parte del pubblico che disapprova completamente ciò che ha visto, e lo mette a tacere con il suo potere. Ciò che l’artista mostra non è qualcosa di eccezionale, ma è la specificità del proprio sguardo sulla realtà che intuitivamente e in maniera ispirata rivela qualcosa che c’è ma che nessuno, forse, ha saputo scrutare. A questa idea del vedere egli dà una forma, e questa diventa bene comune. Come vedi la mia visione del teatro ha poco a che fare con la società dello spettacolo. È una visione di teatro che non fa i conti né con l’illustrazione né con l’informazione, ma con la capacità dell’opera di generare un’esperienza per il pubblico, e renderlo capace di generare a sua volta altre esperienze. Sono importanti le emozioni, i sentimenti dello spettatore. Perché certe figure tragiche emozionano? Cosa ci rivelano di noi stessi? La tragedia, secondo Aristotele, rivelava qualcosa. Ma il compito della rivelazione spetta al pubblico, non all’artista. L’artista agisce per poi abbandonare l’opera, lasciarla andare.

    A tal proposito, qual è il tuo pensiero sul pubblico di oggi?

    È un pubblico che va pensato, va immaginato. L’opera teatrale non deve avere solo una visione del palco e del testo, ma deve avere anche una visione dello spettatore in relazione all’idea. Questo è un pubblico che si deve costruire perché risponda a una forma di cui hai necessità, e che deve trovare il desiderio. Ne ha parlato il filosofo Giovanni Leghissa nell’incontro pubblico Eros e conoscenza artistica (all’interno del programma di Màntica, ndr): in questo periodo storico viene a mancare l’eros, ovvero il desiderare, scoprire, ricercare, mettersi in campo. Questa curiositas, questo indagare, cercare. Lo spettatore deve imparare a essere errante nella conoscenza dell’opera d’arte: avere un obiettivo molto preciso ma con un andamento di errore, legato all’esperienza. Il pubblico deve porre nell’immaginazione una forma di conoscenza come nella scuola antica, dove il Poeta antico che maestro dell’eccellenza. Un maestro che è chiamato a dare una lettura che genera cultura. Non immaginiamo un pubblico che consuma, ma un pubblico chiamato ad avere un linguaggio critico anche nell’ignoranza, anche nella povertà, perché comunque c’è un fondo teorico che aiuta e sostiene nella visione (nei nostri giorni a livello simbolico). Oggi si può andare a vedere uno spettacolo che non si capisce perché non ha la classica trama, e avere la possibilità di comprenderlo soltanto mettendosi nell’atteggiamento di chi vuole immaginare qualcosa: vedere per immaginare.

    Chiara Guidi, Macbeth, 2014, Foto: Luca Del Pia

    Chiara Guidi, Macbeth, 2014, Foto: Luca Del Pia

    Tra relazione e leggibilità dell’opera, uno sguardo sonoro sul festival

    di Francesco Bentivegna e Audrey Bommier

    La settima edizione di Màntica, in linea con la sua vocazione, ha messo l’accento su di una serie di eventi a carattere sonoro, incorniciati all’interno di sei giorni interamente dedicati alla leggibilità dell’opera d’arte e alla soglia di relazione tra artista, autore e spettatore.

    Si è trattato, in questo senso, di una relazione sonora, continua, tra unicità performative. Tutti gli “accadimenti” di Màntica si sono mossi verso l’annullamento della quarta parete e della distanza corpo-suono. La tendenza generale è rivolta all’attore-concerto, performer che in sé contiene il divenire: divenire uomo, donna, suono, parola, emozione, corpo.

    Tra gli ospiti di questa edizione, l’artista visivo e performer Italo Zuffi pensa la voce come strumento ironico, buffonesco e dissacrante. Nel suo lavoro, l’artista punta a un riposizionamento dell’organo voce, soprattutto nel suo uso significante. In ogni quadro della sua peformance Nel senso che l’alba ci ritrovò tutti quanti in sala, la fonazione è differente ma sempre improntata verso un capovolgimento ironico, sia esso della voce scenica impostata o dello slogan pubblicitario. In questo senso il rapporto con il microfono è esemplificativo: un finto cantante tiene in mano un microfono spento, pronunciando un non-linguaggio; egli è guidato da un metteur-en-scene e seguito geometricamente da due cursori, rivolti verso di lui. Il rimando alla società dei talent-show è lampante: la voce e la parola vengono sotterrati, a favore dell’immagine, e dell’apparenza. Tramite le diverse vocalità dei suoi performer, Zuffi, muove un’accusa alla società contemporanea, un’accusa quasi ingenua, naive, lasciando gli spettatori inermi davanti ad un’immagine finale, un’alba piena di silenzio.

    Intorno alla voce e i suoi movimenti ruotano anche Macbeth e Nuvole/Casa, i due lavori presentati da Chiara Guidi. Si tratta qui di due diversi orizzonti accomunati da un unico centro: l’indagine intorno alla parola. Macbeth parte dal suono dei fonemi, per poi dotarli di un significato. Esso è quindi suono e respirazione, silenzio e soffocamento; è un gioco di opposti, di relazione e di unicità. Le voci delle tre attrici sono il focus dell’intera messa in scena; scarne, vuote e acusmatiche, occupano ogni porzione di spazio della sala. Come scrive la stessa Guidi “la parola delle streghe penetra nel corpo di chi ascolta e si inocula nel sangue” soffocando lo spettatore, che sorpreso dalle infinite ripetizioni, si fa catturare dal buio del Macbeth. Le ripetizioni sono invece una parte integrante di Nuvole/Casa, omaggio che Guidi fa a Elfriede Jelinek. Il testo pone in essere la tensione inquieta della cultura tedesca contemporanea, tensione che la stessa Guidi porta in scena. Le parole sono estrapolate dalla scrittrice austriaca da alcuni testi: Heidegger, Hegel, altri filosofi, programmi radio e discorsi della RAF, la Rote Armee Fraction dell’“autunno tedesco”. La voce dell’attrice è il centro dello spettacolo, come le parole lo sono per il testo; Guidi gioca con le stesse parole, riducendo le azioni al minimo, appannaggio solo delle altre due figure in scena, un violoncellista, colonna sonora e misura della performance, e un giovanissimo androgino biondo, in costante ricerca d’aiuto. Nuvole/Casa è quindi una richiesta d’aiuto che ha la voce stridula e grave delle ragazze della RAF, Gudrun Ensslin e Ulrike Meinhof, e si muove nelle tensioni vocali di Chiara Guidi, contrapposte alla rassicurante vox materna tramite la quale si rapporta al ragazzo.

    La proposta di Sandro Pascucci rimarca invece l’importanza basilare del rapporto profondo tra interprete e compositore, convogliando la riflessione nei cardini dell’analisi contemporanea sul suono. Nelle variazioni su John Cage, i musicisti insistono su due aspetti fondamentali: l’interprete diventa compositore scegliendo come suonare la parte e la ricezione diventa composizione, dove l’ascoltatore non è più passivo ma compositore. Nelle tre proposte musicali il pubblico e gli interpreti si confrontano con Cage, lo modificano e lo rendono proprio, in un’arte della relazione esperienziale.

    Il corpo diviene una forma di spazio sonoro anche nei lavori di Maria Donata D’Urso e dei Dewey Dell. La danza periferica e senza centro di D’Urso si sposa perfettamente con il suono acusmatico di Gilles Silvilotto che ne estrae e campiona brandelli di movimento. La scomposizione corporale della danzatrice è doppiata dal lavoro sul suono, in una costante esplorazione tra le superfici: la pelle, la struttura scenica, il suono ambientale o proveniente dal contatto tra il corpo e la superficie stessa. In questo lavoro non è possibile prescindere dal suono, che diventava parte integrante della creazione, cullando il movimento, uscendo dal suo essere musica, così come il movimento esce dal suo essere quotidiano.

    E di superfici sonore parla anche il live-show dei Dewey Dell, che potrebbe esser preso a simbolo dell’intera manifestazione: corpi danzanti, producono sonorità cariche di echi organici, colpiscono le orecchie in un connubio tra immagine acustica e visiva. Il suono sembra scaturire dal Teatro Comandini nella sua struttura portante: fare ritorno alla corporeità anche geometrica, esplorandola in tutte le sue varianti e direttrici, comprese le più nascoste, significa far ri-suonare il corpo e lo spazio, per cercare una fusione tra l’artista e lo spettatore, là dove la leggibilità dell’opera passa attraverso la pelle.

    Italo Zuffi, Nel senso che l'alba ci trovò tutti quanti in sala, 2014, Foto: Filippo Tappi

    Italo Zuffi, Nel senso che l’alba ci trovò tutti quanti in sala, 2014, Foto: Filippo Tappi

    Nel senso che l’alba ci trovò tutti quanti in sala. Il laboratorio di Italo Zuffi

    di Claudia Masi

    Il festival Màntica ha orientato la sua specificità intorno al concetto di laboratorio e alla sua pratica performativa, determinante per la creazione stessa degli appuntamenti in programma, proponendo al pubblico uno sguardo ravvicinato, intimo, sul lavoro di ogni singolo artista. La creazione di un vero e proprio “osservatorio sperimentale” è la formula scelta per affinare lo spirito critico di chi osserva e prende parte, al tempo stesso, all’opera d’arte.

    In questo contesto si inserisce il lavoro di Italo Zuffi, presentato dal curatore Simone Menegoi come “un’intuizione poetica singolare, che non si lascia ridurre a una regola”, sviluppato in forma laboratoriale e che trova una sua ricaduta nella performance finale.

    Nel senso che l’alba ci trovò tutti quanti in sala ha portato in scena i partecipanti al laboratorio seguendo un iter particolare e non privo di alti e bassi, mettendo alla prova la personale concezione e percezione di opera d’arte, attraverso esercizi di logica e pratica dell’azione. Partendo da alcune semplici indicazioni di ricerca di materiali, come immagini e parti di testi, i partecipanti si sono avvicinati al lavoro dell’artista in questione, sulla base di alcune performance di repertorio eseguite in passato. Dettate principalmente da un’esigenza compositiva, le azioni proposte coinvolgevano i partecipanti in partiture gestuali, movimenti, singoli o in gruppo, alternati e/o ripetuti, ripresi da momenti della vita quotidiana, da fatti di cronaca o dall’ispirazione dell’artista.

    Una voce al microfono introduceva le varie parti dell’azione finale con la formula “performance formato teatrale numero…”, elencandole in successione. La prima prevedeva un’invasione dello spazio deputato agli spettatori da parte dei performer, mescolati inizialmente all’ingresso del pubblico, impegnati a ripetere con insistenza la domanda “Signore, signore ha un euro?”, i performer hanno ripreso alcuni dei temi sviluppati dall’artista, quali la ripetizione del gesto e della parola in un’azione che riprende il vissuto comune di ciascuno. L’azione successiva ha condotto i partecipanti alla ripetizione di frasi e movimenti di gruppo, espressione ancora una volta del quotidiano, in particolare nel mostrare lo stupore di qualcosa di ambiguo e incongruo rispetto a una norma presunta, come la forma sbagliata di un biscotto, il cui sacchetto ne suggeriva una differente, il tutto ripetuto più volte con movimenti rigidi e calibrati, supportato al contempo da frasi pronunciate con tono e accento distorti. Con L’ultimo ruggito (performance di repertorio) il gruppo, diviso in coppie, si cimentava in una prova di resistenza in cui, battendo a tempo le mani, le coppie tenevano tra i denti un singolo pezzo di cracker cercando di non romperlo e di alzarsi dicendo a voce alta “coraggio” nel caso contrario.

    La performance proseguiva con alcune azioni costruite durante il laboratorio, risultato di un interessante esercizio sviluppato sul materiale raccolto singolarmente da ogni partecipante. L’esercizio prevedeva un accostamento di immagini, ricercate sotto indicazione dell’artista, che ritraessero azioni singole o di gruppo. I soggetti in questione erano estratti dal loro contesto e rielaborati in azioni singole o in successione, in base ad una logica differente dai vari membri del gruppo: il risultato è stato produttivo e funzionale alla costruzione di gran parte della performance finale, caratterizzata da un criterio compositivo indubbiamente alimentato dall’influenza scultorea del lavoro di Zuffi, con un’attenzione alle caratteristiche della corporeità concepita per evitare i clichè teatrali giocando invece sul registro quotidiano e sociale.

    Nel senso che l’alba ci trovò tutti quanti in sala ha visto partecipe in prima persona Simone Menegoi che, intervistato da “Celant” (ossia l’artista camuffato in aspetto e voce), rispondeva ai quesiti posti camminando su di un tapis roulant.

    Nonostante la forma scelta dell’intervista pubblica, l’atmosfera creata era intima e gioviale, puntata sì su di un accento ironico (con una pausa tè nel mentre) ma fondamentalmente basata su una sincera curiosità verso il lavoro di Menegoi e un omaggio alla sua scelta di vita che è stata quella di intraprenderlo.

    L’intervento si chiudeva con una citazione da un brano di Marguerite Duras E’ questo il giorno in cui nulla accade?, a cui l’intervistato ha preferito rispondere col silenzio perchè “nulla che avrei potuto dire sarebbe stato altrettanto poetico”.

    Il lavoro si è concluso con la proiezione di uno scatto fotografico, frutto d’ispirazione dell’artista, che ritrae un’alba accecante colta probabilmente lungo un viaggio. Il titolo dell’opera, le azioni proposte e la stessa fotografia mostrata, supportano più di un’interpretazione e lettura e, come sostiene lo stesso Menegoi “preferisco lasciare intatta la sua ricchezza e non darne nessuna”.

    Maria Donata D’Urso, Strata.2, 2011, Foto: Laura Arlotti

    Maria Donata D’Urso, Strata.2, 2011, Foto: Laura Arlotti

    Il corpo e il suo ambiente, un laboratorio di Maria Donata D’Urso

    di Louise Crocquevieille

    La settima edizione di Màntica ha messo l’accento sulla dimensione dello scambio. Sia nelle rappresentazioni che nelle proposte di laboratori molto eterogenee, lo spettatore non rimane più esterno all’evento, viene anzi invitato a partecipare attivamente e a entrare nell’universo degli artisti e delle opere presentate: diventando, in certi casi, parte stessa dell’opera.

    Per permettere quest’immersione totale, il lavoro d’osservatore viene arricchito dalla possibilità di conoscere da vicino le modalità di lavoro e ricerca quotidiane degli artisti invitati. Ad esempio attraverso la partecipazione ai laboratori di danza e performance artistica condotti da Italo Zuffi, Nel senso che l’alba ci trovò tutti quanti in sala, e da Maria Donata D’Urso, Il corpo e il suo ambiente, sul quale si concentra il mio personale approfondimento in questo report.

    Durante i due pomeriggi di workshop, l’artista ha fatto toccare con mano la propria esperienza, ricerca e sperimentazione sul corpo, e il rapporto complesso e fondamentale del corpo con l’aria, l’ambiente e la mente. Alla fine di questo lavoro di gruppo, abbiamo anche avuto la possibilità di assistere alla presentazione della sua nuova creazione, Strata.2.

    Durante il lavoro abbiamo proceduto in maniera graduale, per prendere con la dovuta consapevolezza il tempo di domare corpo, sensazioni e soprattutto, non forzare i muscoli ma piuttosto distenderli. Gli esercizi proposti ci hanno permesso un’apertura progressiva da una visione esterna del nostro corpo (fisico, forma e movimenti quotidiani), verso una visione interiore dello stesso. Un ascolto profondo per prendere coscienza del proprio corpo sia fisicamente che mentalmente, che permetta di superare i limiti materiali, culminata in una rigenerata apertura sensibile alle forze presenti nell’ambiente in cui fisicamente abitiamo.

    Il primo momento, il riscaldamento, è stato mettersi in ascolto proprio corpo: soltanto questo, ha permesso di avere una visione distaccata di noi stessi. Ci è stato concesso il tempo di ascoltare il respiro, di pensare a com’è fatto il corpo, di percepire a fondo tutte le articolazioni, i tendini e i muscoli. Ci sono state poste delle domande da D’Urso: dove passa la respirazione, che canali, che meccanismi utilizza l’aria? Questa è stata la chiave per mettersi in contatto con noi stesso ed essere presenti per il proseguimento del lavoro.

    Durante tutta la sessione, ciascuno studia le proprie possibilità, perché il punto centrale è l’ascolto di se stessi e della relazione con gli altri. Durante il secondo momento, la camminata è stata il primo strumento per la percezione degli altri nello spazio, ma ha anche dato un primo spunto lavorare sul passaggio da una postura quotidiana a una extra-quotidiana, derivata dallo studio approfondito delle nostre consuetudini fisiche. La camminata è diventata così un momento di passaggio dalla normalità, il conosciuto e l’abituale, alla sperimentazione. Questa è una parte fondamentale nella poetica di Maria Donata D’Urso. La sua voce guidava durante questo percorso, da un esercizio all’altro, da una sensazione all’altra, fino a far giungere a una percezione del movimento più profonda, più precisa, al fine di prendere coscienza completa del “corpo e il suo ambiente”. Ognuno di noi è stato spinto a cercare di entrare in contatto con gli altri attraverso lo sguardo, ma anche a sentire senza toccarsi. Gli esercizi sono serviti soprattutto a studiare come viviamo le reazioni del nostro corpo: immaginando, per esempio, di esser tirati in tre punti differenti della sala, come sarà la caduta? Come reagisce un corpo che subisce queste forze? E sperimentiamo, la potenza dell’immaginario ci porta a un movimento invisibile. Il corpo e la mente si trovano in un’unità che va al di là della riflessione, della ricerca e del prevedibile. Il primo giorno di workshop è stato permesso di prendere il giusto tempo per concentrarsi su un diverso punto di vista, quello dell’artista, e la sua visione del corpo come materia sulla quale lavorare e sperimentare.

    Il secondo giorno si è approfondito il rapporto del corpo con lo spazio. Più che concentrarsi su se stessi è divenuto essenziale concentrarsi sul movimento che è possibile creare nell’ambiente. L’immaginario permette un’immersione nel movimento creato e permette di essere in contatto più diretto con le proprie reazioni e sensazioni. Il corpo diventa entità ricettrice di tutti gli elementi che costruiscono il mondo attorno a noi. Siamo in piena coscienza delle nostre capacità e dei nostri movimenti. A fine giornata abbiamo avuto l’interessante possibilità di relazionare il corpo con la struttura mobile utilizzata dalla D’Urso nell’opera proposta al festival, Strata.2. Fatta di fibre di carbone e di elastici, la struttura accoglie e risponde alle forze del corpo, gioca con lui e vi si adatta. I due corpi, quello umano e quello artificiale, sono tutt’uno, in equilibrio tra flessibilità e ascolto, senza violenza né brutalità.

    Questi due giorni di lavoro e sperimentazione hanno permesso ai partecipanti al laboratorio di sviluppare la propria capacità immaginativa e quindi, di aprirsi a visioni anche ritenute impossibili. È divenuto così chiaro come l’attore, così come il danzatore, possa trovare interiormente un linguaggio espressivo e una riserva di possibilità per inventare un nuovo movimento, una nuova immagine scenica, trovando il proprio contatto permanente con l’ambiente.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

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