• Dieci anni senza Leo. A Vallo, ricordando un maestro dell’arte scenica

    Dieci anni fa scompariva Leo de Berardinis. È stato uno degli innovatori della scena del secondo Novecento, in lotta costante per il suo rinnovamento. E un maestro dell’arte scenica per più di una generazione. Per ricordarlo la cittadina di Vallo della Lucania, nel Cilento, gli dedica nella giornata di martedì 18 settembre un omaggio non formale, con la proiezione di tutti i film e i materiali video che ne testimoniano la lunga stagione creativa. L’evento si svolge nel teatro che non per caso tre anni fa si era voluto fosse intitolato al suo nome. Riprendiamo di seguito gli interventi di Gianni Manzella, Toni Servillo, Stefano De Matteis ed Enrico Pitozzi pubblicati sul programma della XXI edizione del festival di VeliaTeatro, che il direttore artistico Michele Murino, artefice anche di questa giornata, ha voluto dedicare a Leo de Berardinis.

    Foto Agnese De Donato

    L’angelo dell’arte

    di Gianni Manzella

    A Carola che sa perché

    1.

    C’è un’immagine di Leo de Berardinis nello spettacolo che s’intitola ’O Zappatore che ho sempre davanti. L’attore sta in ginocchio, il corpo piegato un po’ da un lato si tiene a un sassofono. Ha gli occhi coperti da una larga benda. Alza il volto verso qualcosa che non può vedere, mentre la bocca si apre appena in un’espressione di stupore. Un poeta cieco, un veggente. Come se il futuro cui si volge stesse tutto dietro le spalle. Il poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi – scriveva il giovanissimo Arthur Rimbaud in una celebre lettera del 1871.

    In questa immagine però manca qualcosa. Se lo sguardo potesse scivolare più in basso, vedremmo a terra davanti all’attore una scacchiera. Dove sono rimasti solo due pezzi. Uno bianco e uno nero. La morte del Re sigla la fine della partita.

    A torto o ragione, mi sembra che questa immagine ancora giovanile condensi profeticamente la lunga vita artistica di Leo de Berardinis. Lo sviluppo multiforme del suo pensiero. Il ruolo di cui, da artista, si è fatto carico nel trascorrere di anni tumultuosi. Cercando di consumare in sé tutti i veleni, tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia, per conservarne solo la quintessenza – come ancora scriveva il poeta giovinetto nella lettera del veggente.

    Come l’angelo della storia di cui parla Benjamin, con il viso rivolto al passato, anche l’angelo dell’arte è spinto irresistibilmente nel futuro. Consapevole tuttavia che bisogna avere radici nel passato. Che è necessaria una tradizione, per quanto possa essere non propriamente canonica. Il rischio altrimenti per l’artista è di giocare il ruolo sbagliato nella storia. Come accade a quei Re di cui la tragedia di Shakespeare ci racconta la morte.

    Sha mat.

    2.

    A Roma, in quegli anni, era ancora l’epoca delle “cantine”. Ed è in un teatrino romano, la Ringhiera, un buco dalle parti di Santa Maria in Trastevere, che nell’aprile del 1967 va in scena faticosamente una singolare messinscena dell’Amleto. A interpretare tutte le parti sono due giovani attori: lui, Leo de Berardinis, già temprato da un lungo apprendistato nell’avanguardia romana; lei, Perla Peragallo, attrice d’istinto dotata di una solida cultura musicale di tradizione familiare. Per meglio dire, i due interpreti davano voce alle immagini proiettate su tre grandi schermi cinematografici, mescolando agli echi della tragedia scespiriana frammenti di altri testi e accenni all’attualità politica.

    Quasi scontate le reazioni negative, da parte di un pubblico preso in contropiede e ancor di più di una critica ufficiale che stenta a riconoscere la novità della proposta. E l’incomprensione si ripeterà l’anno dopo in occasione di un’altra rielaborazione scespiriana, Macbeth questa volta, sommandosi all’equivoco di chi vede in loro gli emuli di Carmelo Bene. In realtà questa Faticosa messinscena dell’Amleto, tale anche nel titolo scelto, era un tentativo di affrontare la tradizione del teatro occidentale, nel suo mito più celebrato, raccontando il farsi stesso del teatro; e dunque finendo per raccontare soprattutto gli stessi interpreti, là dove l’arte coincide con la vita e diventa esperienza.

    Sarà il tempo a chiarire che la scelta scespiriana non era pretesto ma assunzione consapevole di un punto di riferimento che tornerà a più riprese nel lavoro successivo di Leo de Berardinis. Intanto però l’esito di quei primi lavori aveva radicalizzato il rifiuto di un teatro vissuto come “errore”, perché rivolto a un pubblico sbagliato. Eccoli allora lasciare Roma per trasferirsi a Marigliano, un paesone alle porte di Napoli, e teorizzare un “teatro dell’ignoranza” che parte dall’incontro con una cultura popolare che, senza facili pacificazioni, può rivelare ancora una rabbia esplosiva.Sono anche anni di risse con gli spettatori, quelli in cui andavano contaminando Shakespeare con la sceneggiata, reinventandosi ’O Zappatore o anagrammando Lear con Lacreme napulitane.

    Negli anni Settanta il loro teatro si esalta e si consuma. Per tutti sono ormai diventati semplicemente Leo e Perla, come tali sempre più vanno in scena. Esponendosi in prima persona con la loro vita, con copioni sempre più friabili che lasciano spazio all’improvvisazione, trame surreali o fantascientifiche che raccontano la disperazione di un sud del mondo che non appartiene solo alla nostra penisola. Sono anni di spettacoli indimenticabili, per gli spettatori di allora, come Sudd e Avita murì. Ma anche anni di un crescente malessere esistenziale che coincide con quello sociale di uno dei periodi più plumbei della storia nazionale.

    Il tema della solitudine dell’artista si ripresenterà nel piccolo mondo immobile di The Connection con cui si apre la seconda vita artistica di Leo, un rinascere come uomo nuovo dopo aver affrontato il rischio dell’autodistruzione. Al giro di boa degli Ottanta, c’è per Leo il distacco da Perla e un nuovo faticoso ricominciare. Di nuovo lontano da Roma, a Bologna questa volta, e di nuovo facendo appello al grande teatro scespiriano. Riprendendo precedenti esperienze di didattica teatrale, Leo comincia a formare una propria compagnia e si ripresenta con un nuovo Amleto dalla lingua profetica e immerso in una notturna oscurità che lo apparenta esplicitamente alla Commedia dantesca. Muovendo da questa “selva oscura” e passando attraverso lo squarcio della penombra operato in un Lear di filosofica crudeltà per approdare alla solarità della Tempesta.

    È, per Leo, un tragitto di conoscenza, dal buio alla luce, dal mondo uscito dai cardini alla ricomposizione dell’ordine morale, capace di riconoscere anche il male come una parte dell’esperienza personale. Ecco così, a conclusione della parabola, tornare le ombre del Macbeth proiettate però ora in un gelido vuoto dove si materializza l’orrore da attraversare. Ed è anche un ritrovare la via del teatro attraverso un’ardua reinvenzione del proprio linguaggio espressivo, dal poetico disordine degli anni romani a una evocativa astrazione dove le luci giocano un ruolo fondamentale nella costruzione dello spazio scenico.

    Al di là di questa soglia c’è l’emozionante cavalcata fra le luci e le ombre di un secolo dello straordinario Novecento e Mille, dove a fianco dei sei personaggi pirandelliani e dei vagabondi di Beckett può starci di diritto lo scrivano di Miseria e nobiltà o il malizioso duetto di “levat’a cammesella” immortalato da Siamo uomini o caporali, coniugando una visione pessimistica della storia (la storia è follia, dice l’Enrico IV di Pirandello) con i bagliori dell’utopia evocata dai versi di Majakovskij per attraversare una “terra desolata” che non è più soltanto quella di Eliot, mentre sullo sfondo sono ancora Shakespeare e Dante a far da guida lungo un tragitto che si apre a una speranza priva di sentimentalismi, allo scoccare dell’ormai proverbiale battuta “ha da passà ’a nuttata” della Napoli milionaria eduardiana.

    Ha da passà ’a nuttata è anche il titolo dello spettacolo con cui giunge finalmente a compimento l’incontro di Leo con l’universo di Eduardo: un incontro a lungo cercato, una presenza che percorre idealmente tutto il lavoro di Leo, emergendo a volte per lancinanti frammenti come nel brano di Filumena Marturano che siglava il lontano De Berardinis-Peragallo. È l’omaggio a un maestro della scena e a un “padre” con cui è inevitabile confrontarsi, ma è anche l’indicazione di un’idea di teatro che pone al centro l’attore capace di esprimere una propria autonoma drammaturgia, altre volte identificato con il grande jazzista, attore-autore totale. Attraversamento magistrale dell’opera eduardiana, Ha da passà ’a nuttata è a suo modo un esempio perfetto di quella scrittura scenica che per Leo vuol dire pensare teatralmente, e tocca poi un altro vertice con Totò principe di Danimarca. Qui, in un moltiplicarsi di associazioni rivelatorie, a dar corpo e voce ad Amleto è l’inconfondibile maschera napoletana del principe De Curtis, alla ricerca cocciuta di un “oro di Napoli” che forse sta ancora nascosto per chi da sempre resta beffato dalla storia.

    Fra le tante immagini anche dissonanti, quella che da ultimo forse con maggiore convinzione Leo aveva voluto legare a sé era proprio la maschera beffarda di Totò. Una sorta di reincarnazione immaginaria, fondata su una misteriosa capacità di richiamare nel proprio corpo quell’altro corpo. Misteriosa perché non faceva appello a nessuna mimesi, nessuna ricerca di imitazione fisica o gestuale, men che meno di adesione psicologica. Totò come poesia comica, espressione di un’arte scenica raffinata e popolare, nutrita dalla linfa della maggiore tradizione teatrale del nostro paese e di una realtà sociale non artefatta.Il sapere scenico si trasmette per contatto, per contagio, per imitazione. Leo parlava di “tracce”, mettendo in luce il ruolo della memoria: la scarsità di tracce che lascia costruisce la ricchezza del teatro perché dà spazio all’immaginazione.

    Da Totò l’ultimo decennio del secolo porta quasi inevitabilmente di ritorno a Shakespeare, prendendo spunto da un laboratorio al Teatro Verdi di Salerno per dilatarsi in un nuovo Lear, il terzo dopo quello contaminato con la sceneggiata degli anni Settanta e quello nitidissimo e zen del decennio successivo ma che nelle intenzioni si preannuncia come la prima tappa di un’intera stagione dedicata dall’attore al dramma scespiriano e avrà solo un’ideale conclusione più di un anno dopo nella sintesi di un Lear Opera che trasporta la tragedia dentro la farsa napoletana. È a quello più lontano nel tempo che sembra infatti ricongiungersi questo Lear che napoletaneggia con le parole del vecchio re che ha deciso di dividere il regno fra le figlie, mentre siede a bere birre a un tavolino da caffè, davanti al palco di legno dove si muovono le maschere della commedia dell’arte.

    Gli anni Novanta bolognesi suggellano il successo di Leo de Berardinis. Finalmente arriva anche il riconoscimento dalle istituzioni. Ma sono anni anche di un crescente malessere, come se quel successo lo stringesse in una camicia di forza. Riemerge l’uomo contro, l’artista che ha bisogno del conflitto. C’è forse anche questo il quel passato che riaffiora. Quasi a dare concretezza alle parole di Zeami, il maestro giapponese del teatro Nō, sul grande attore capace di passare nel tempo attraverso tutti i gradi dell’arte, andando verso l’alto e poi di nuovo verso il basso. Quasi a ripercorrere, da uomo nuovo, i propri lontani passi. Prima del silenzio.

    3.

    Io è un altro, ha scritto Arthur Rimbaud. È ancora la lettera del 1871 in cui espone la sua poetica. Je est un autre. Con questa messa sotto scacco dell’io ha dovuto fare i conti da più di cent’anni la modernità. Con questo “altro da sé” bisogna oggi più che mai fare i conti.

    Ha qualcosa a che vedere con i frammenti di un discorso teatrale che stiamo mettendo insieme? Sì, se accettiamo di vedere nello specchio che il teatro ci offre, nel corpo dell’attore, quell’altro di cui siamo in cerca. Se nella sua malattia rivediamo la nostra malattia. Per cercare insieme una salvezza che da soli non possiamo raggiungere.

    Con la sua debolezza, la sua fragilità, la sua malattia l’attore si mette di fronte a noi. Nella sua debolezza misuriamo la nostra. Viene a ricordarci, noi che galleggiamo nell’universo della complessità, quanto impegno richieda anche il gesto più semplice. C’è nel gesto dell’attore un contenuto emozionale che precede qualsiasi possibile decifrazione intellettuale. Un’emozione che appartiene al qui-e-ora dell’evento scenico e che passa senza mediazione attraverso il suo corpo. Come una momentanea tempesta interiore. Il gesto del performer ci sorprende, e ci confonde. E in questa confusione, in questo portare disordine e conflitto, si attesta come atto politico.

    Come se solo ora e qui si sciogliesse il paradosso dell’attore che da Amleto arriva a Leo de Berardinis.

    Foto De Furia

    A bottega da Leo

    di Toni Servillo

    Io ho cercato Leo per imparare, e molto di quello che sono, ammesso che sia qualcosa, l’ho imparato da lui; non è la prima volta che lo dico e mi fa piacere che in una circostanza interamente dedicata a lui possa ribadirlo.
 L’ho cercato, l’ho visto con Perla, in anni in cui si andava a cercare un teatro più complesso, meno legato ai cascami di una tradizione a cui noi giovani eravamo insofferenti, si vedeva il Living, si seguiva Grotowski, si seguivano i primi spettacoli di Wilson. Leo rappresentava insieme a pochi altri – per me in particolare Leo – una via italiana a un teatro diverso. È capitato anche a me di assistere a serate al teatro di Trastevere in cui Perla entrava in scena con lui e lui magari notava che c’era una bellissima ragazza seduta in prima fila, le si avvicinava, cominciava a parlare con lei e non succedeva niente e ce ne andavamo tutti a casa. Oppure sempre al teatro di Trastevere all’epoca del dibattito sulle sovvenzioni, sui borderò falsi, lo trovai veramente geniale, c’era un cavalletto da pittore dove Leo dipingeva un borderò. Ho avuto anche la fortuna di assistere ad Avita murì, Sudd, ma L’Uomo capovolto, Novecento e mille, sono spettacoli che per me hanno rappresentato una via italiana, non riesco a trovare una parola più semplice, una forma di novità però densa anche di un rapporto così fecondo con la tradizione. Essendo Leo uomo del sud, anche come fenotipo, con l’amore per le donne, il gusto per l’abbigliamento, il gusto della risata, l’ironia, potete immaginare che su di me hanno avuto un effetto di fascinazione per cui non ho vergogna a dire che me ne sono proprio innamorato. Quando si fondò Teatri Uniti, avevo scelto di lavorare sulla lingua teatrale napoletana mettendo in scena un testo di Enzo Moscato e avendo avuto grazie a Luca De Filippo la possibilità di accedere al repertorio (non era così facile a quei tempi) del teatro di Eduardo, io come un innamorato lo offrii a Leo proponendogli di lavorarci e magari chiamarmi a recitare lui. Così è partita l’avventura di Ha da passà ’a nuttata, che era una coproduzione con Teatri Uniti ma uno spettacolo di totale e pura creazione di Leo. Ricordo l’esperienza di Ha da passà ’a nuttata a Spoleto come uno dei periodi più belli della mia vita, lì ho imparato la capacità tecnica di Leo, quella necessità di preparare lo spettacolo quindici giorni prima di andare in scena, in modo che ci fossero quindici giorni di prove filate in cui lo spettacolo nasce. Io non ho mai fatto un passo indietro rispetto a questo insegnamento, creo sempre le condizioni concrete perché si abbia un’imbastitura. Tutte parole che ho imparato da lui, imbastitura, tinta, armonia, proporzioni. Io sono proprio andato a bottega da Leo e sono felice di aver avuto un maestro così. Ho imparato il valore della replica, cosa significa interpretare e dare la lettura ultima di uno spettacolo, affidarla al modo in cui si esegue, ho imparato che l’atteggiamento che una compagnia ha nei confronti del testo corrisponde, nel momento in cui lo esprime, alla critica che ha di quel testo, che non ha niente a che fare con ciò che è a monte, in una visione esclusivamente registica. Questo è quello che credo di aver capito dell’attore interprete e di una interpretazione creativa. Tante cose, ho imparato, poi non so se l’ho messo a frutto bene, a tenere una compagnia, ad avere quel rispetto civile per gli attori, a non alzare mai la voce inutilmente, ho imparato il senso e l’armonia delle proporzioni, cos’è una tinta a teatro, come si amministra una tinta rispetto a un’altra secondo un andamento drammaturgico, come si sta in palcoscenico, come si esce e come si entra da una quinta, come si affronta una battuta, come è importante la prima lettura legata alla sapienza teatrale, come la tecnica libera un attore. In anni in cui invece si riteneva che tutti potessero fare tutto, Leo è stato un paletto a cui attaccarsi e dire no. Il teatro è pure sacrificio, impegno, fatica, approfondimento, cultura, dedizione, rinuncia.

    Foto Piero Casadei

    Leo o della dialettalità del teatro

    di Stefano De Matteis

    Ho sempre amato pensare che l’origine fosse tutta lì, nel Don Chisciotte. Anche se poi ho dovuto ricredermi: perché mi sono accorto che dovevo fare i conti con delle fondamenta se non ramificate almeno doppie. In quanto Cervantes si affianca e si gemella con Shakespeare. Anzi, a voler essere precisi, quest’ultimo addirittura precede l’altro: infatti, e forse non è un caso, che l’esperienza “spagnola” – condivisa con Carmelo Bene – fosse stata anticipata dal Bardo in ben due, comunque «faticose», messe in scena – Amleto e Macbeth – che rappresentano per Leo de Berardinis anche il punto di partenza di una condivisione di vita e di teatro con Perla Peragallo.

    Non che gli mancassero esperienze precedenti come, ad esempio, il lavoro con Carlo Quartucci, dal 1962 al 1966; ma credo che in questi pochi anni – in pratica solo due: 1967 e 1968 – si possa trovare il condensato di un percorso poetico e artistico, politico e culturale che si snoderà e si svilupperà per un’intera vita artistica. Infatti, mi pare di leggere qui una sorta di premessa, come un anticipo, un preludio a quanto verrà messo in campo qualche tempo dopo, con il teatro di Marigliano, che sarà un elemento imprescindibile di un progetto a lunghissima scadenza e su cui si costruisce una poetica e una estetica che sopravviverà all’esperienza “meridionale” ma le cui fila continueranno a intessere idee, progetti, soluzioni, linguaggi… in tutto il percorso teatrale di Leo.

    A queste iniziali esperienze, agli anni Shakespeare-Cervantes, segue nell’immediato un periodo di pausa. È strano che tutti e tre i protagonisti delle esperienze citate – Carmelo e Leo & Perla – prenderanno tutti un tempo di riflessione prima di continuare. Come a lasciar sedimentare quanto avevano piantato con i loro spettacoli. Un tempo utile a far maturare scelte e risultati. Ma anche un silenzio. Che, nel caso di Leo & Perla, corrisponde con le riflessioni filmate di A Charlie Parker.

    E la scelta immediatamente successiva rappresenta il radicamento e l’esplicitazione proprio di quanto era stato realizzato in nuce di quel biennio.

    Che cosa aveva decretato il lavoro di quel periodo?

    Innanzitutto – grazie a Shakespeare – si mette alla prova l’irreversibilità della morte dei testi, dei copioni, dei personaggi da pagina scritta. Anche se di questa se ne recupera nel tempo la poesia. Non è un caso che “del testo” di Amleto nessuno sopravvive, da Polonio, Laerte a Ofelia, fino a Rosencrantz e Guildenstern… l’unico in carne e ossa è Amleto. L’unico che sceglie di essere, che vive “minuto per minuto”. Infatti, è la parafrasi del teatro perché procede esattamente come il teatro stesso, si sottopone al vaglio della concretezza e, nello stesso tempo, dello «storicizzarsi continuamente». Quest’ultima è una citazione dello stesso Leo e che può valere tanto per l’Amleto di questi anni, quanto per il (suo) teatro in genere. Tornerà poi ancora ad affrontare il Principe in uno spettacolo “filologico” e poi ancora in una straordinaria e ultima versione.

    Ma, ancora in questi anni, sono solo Sir e Lady Macbeth che sopravvivono a quanto hanno già compiuto: oramai aspettano solo l’avanzare della foresta tecnologica che li sovrasti e li annienti… ma intanto si ostinano comunque ad agire, a fare e, quindi, a essere. E proprio questa la loro condanna.

    Il fare, nel teatro, ha lo stesso valore e significato dell’agire nella vita, muove nella stessa direzione. Questo significa, naturalmente, che tutto procede verso la fine: prende la strada della conclusione, fino ad affrontare la cancellazione definitiva.

    E questo si traduce in un urlo disperato (come quello di Ginsberg successivamente più volte ripreso?) che viene lanciato da una squadra di emarginati e disadattati, che squarcia la bellezza sconvolgente e comunque rassicurante de L’isola dei morti, e che richiama il volto del Sopravvissuto di Varsavia scomposto nella dodecafonia di Schönberg. Allo stesso modo di come si rifà alla disperata ed estrema vitalità del jazz.

    Ma, a reggere tutto questo, c’è un’altra ricerca. Che procede furiosa e necessaria. Disperata e solidale.

    E che segue la strada indicata da Cervantes.

    Una strada che somiglia a quella vista dal famoso Angelus novus di Klee-Benjamin che viene trascinato all’indietro, dalla tempesta del progresso. È una ricerca che si misura con le grandi mitologie mediterranee e meridionali. È una pratica che condivide corpo e utopia, immaginazione e terrena radicalità. Si tratta di una ricerca che – proprio grazie al Chisciotte – trova le sue origini nel comico.

    Un comico che non è di parola, ma di gioco di parole, non di boutade, né di satira, ma di corporeità, di fame, di miseria… fatta di parole-azioni e che solo la lingua materna può svelare. Ed è proprio all’interno di questa maternità che si configura la comicità di ’O zappatore.

    Ed è straordinario come questi due percorsi – Cervantes e Shakespeare, o vice versa – si intreccino in un abbraccio straordinario. Esattamente come avviene, sempre in questi anni, con l’incontro tra King Lear e Lacreme Napulitane e che si offre come presupposto di una sorta di conflitto creativo e inventivo che sarà indissolubile e sempre presente nelle creazioni di Leo, al punto da proiettarsi e ritrovarsi nel futuro e in numerose occasioni: come le più tradizionali farse realizzate con il supporto dell’amico e complice Renato Nicolini. E che approderà a quella più evidente e straordinaria del connubio tra Amleto (di nuovo) e Totò che vestirà i panni del “principe di Danimarca”.

    A partire da questo lavoro e tra questi estremi che Leo disegna una linea rossa, che possiamo leggere come il filo conduttore di tutta la sua carriera artistica: una sorta di tessuto del (suo) mondo teatrale che regge sulla dialettalità.

    Il dialetto si offre a un doppio uso: dà la possibilità di lavorare per astrazioni ma nello stesso tempo permette di fare ricorso a pezzi, frammenti, lacerti, brandelli… da inserire in maniera libera nella costruzione e nella composizione dell’opera.

    Questo permette di prendere le distanze e di allontanare nel gioco scenico ma nello stesso tempo di avvicinarsi alla ruvidezza dell’oggetto e del comportamento, alla spigolosità del personaggio-interprete, alla materialità dell’attore al di là del palcoscenico. E permette anche di smontare il suo soggetto, di farlo a pezzi, di romperlo per vedere come è fatto o per guardarci dentro.

    Se all’inizio il vissuto prende sempre più il sopravvento, con il tempo questo elemento mai scomparirà, ma nella lunga storia teatrale di Leo sarà raffreddato grazie a un processo di distanziazione e di immersione nella riscoperta della dialettalità del linguaggio. Che avrà una molteplicità di usi.

    Naturalmente tutto questo – forse non del tutto inutile chiarirlo – non significa tradurre delle parti in napoletano o in foggiano, né si tratta fare la recita di un adattamento confezionato in dilettantese. Si tratta di tutt’altro. È, ad esempio, la traduzione della parola di Shakespeare in sentimenti immediati e impigliati nella maglia del corpo dialettale. Come non pensare, ad esempio, all’indimenticabile Riccardo III (da sentire su Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=2dngOvIse6c).

    All’opposto, è il sentimento della dialettalità che traduce Shakespeare e lo rafforza e lo offre in forma inedita: senza un’inflessione ma dando una riconoscibilità dialettale ai sentimenti (vedi Lear ad esempio).

    La lista potrebbe non finire. Basti immaginare a come costruiva i suoi spettacoli anche con la sapienza delle voci dei corpi di ciascun attore. Sarebbe troppo facile citare a questo punto Ha da passà ’a nuttata dall’opera di Eduardo, mentre diventa esemplificativo ricordare I giganti della montagna con la straordinaria partecipazione in tanta anima, molto corpo ma anche con voce roca, ruvida, calda e inconfondibilmente dialettale di Antonio Neiwiller.

    È l’individuazione della lingua madre che permette tutto questo e si tratta non solo di una lingua sensibile e profonda, ma gli permette di raggiungere un linguaggio che lo agevola teatralmente in una funzione sostanziale: trasformare la poesia in azione perché toglie ogni neutralità, costringe a prendere posizione, a esporsi a scegliere con chi stare e dove stare.

    A partire da una linea d’azione individuata con il primo Amletoe supportata da Cervantes questa si trasforma e si radica al punto da permettere a Leo di individuare le coordinate del teatro come azione politica, come atto e presa di posizione. Ed è solo in questo modo che il teatro svolgerà il suo compito principale. Qual è? Quello di spingere lo spettatore a riesaminare la propria vita e i suoi scopi.

    Grazie al confronto con esperienze di questo genere, l’uomo può arrivare a nuove decisioni a proposito di sé e del suo modo di vivere, a scelte che lo incoraggiano a persistere, o destano in lui il desiderio di incominciare la ricerca di qualcosa di significativo, allargando la sua coscienza di libertà.

    Oggi corriamo il rischio di lasciarci indurre alla passività e allo scoraggiamento. E in questo la tecnologia svolge un ruolo fondamentale.

    Il teatro è forse uno dei luoghi per eccellenza dove si può aiutare le persone a sperimentare la vita direttamente, perché imparino a trarre conclusioni e a prendere posizione indipendentemente.

    Grazie al confronto con il dialetto e al lavoro svolto prima con gli attori «geopolitici» del Teatro di Marigliano in cui Leo individuò la forza degli attori naturali, con una espressività immediata, con i quali era possibile proprio grazie alla loro “ignoranza”, cioè all’assenza di barriere o diaframmi che ne ostacolassero l’espressione (scuole o formazioni accademiche o altre strutture di “contenimento” linguistico ed espressivo), poi con la costituzione di una propria compagnia cui si aggiungevano dei compagni di strada scelti di volta in volta come Neiwiller o come Toni Servillo per L’impero della ghisa.

    Va comunque ribadito che attraverso il dialetto non si tratta di riproporre un mondo incantato, favolistico o affettato. Il dialetto rappresenta sì l’“invenzione delle radici” ma queste vivono in un mondo dilaniato, distrutto e forse irrecuperabile. Ma dove è forse ancora possibile rintracciare degli anfratti di poesia, dei brandelli di vita, dei momenti di possibile incontro. E soprattutto di azione.

    La lingua madre permette così di poter individuare una sorta di musicalità della parola, di fraseggio che dalla ruvidezza della condizione contestuale conduce alla musica e alla scansione poetica dei versi. Ma anche qui, dialetto e lingua madre permettono di lavorare per «intonazioni concrete» così come affermato dallo stesso Leo (a Oliviero Ponte di Pino).

    La metaforica e simbolica Isola dei morti di Böcklin è stata squarciata; il velario aperto e a seguire se ne apriranno tanti altri che permetteranno di muovere alla riconquista di una vita perduta, di una lingua madre ritrovata. Che darà corpo a sangue a tutte le sue creature che saranno esibite, animate, ricreate, inventate sulla scena. E che lasceranno un segno indelebile, come l’impronta del suo corpo nel finale di past Eve and Adam’s.

    Foto Tommaso Le Pera

    Il teatro come modo di vivere

    di Enrico Pitozzi

    I.

    Osservando in sorvolo l’opera di Leo de Berardinis, ci sono due elementi che devono essere discussi con attenzione e che sembrano permanere nonostante le diverse fasi che segnano l’opera e la vita di questo autore: una muove sottotraccia, come un fiume carsico e silenzioso, in cui mi sembra di individuare una tensione filosofica le cui radici rimontano alla Grecia presocratica; mentre l’altra, forse più evidente, riguarda la dimensione sonora della scena, all’interno della quale si delinea con forza la sperimentazione vocale[1]. Pur non parlando espressamente di una phoné – come invece farà Carmelo Bene – Leo de Berardinis ne fa nondimeno un elemento imprescindibile della scena.

    Entrambe queste traiettorie, la relazione con la filosofia e la dimensione del suono-voce, sono profondamente intrecciate tra loro e sfociano nel teatro come modo di vivere

    Tale riflessione è suggerita da un’attenta lettura dei quaderni di Leo de Berardinis – come è mio privilegio da diverso tempo a questa parte[2]– dai quali emerge una costante riflessione dell’artista intorno alla matrice filosofica del teatro, là dove per filosofia non si intende una forma di speculazione del pensiero, piuttosto – esattamente come il teatro – ci si riferisce a un modo attraverso il quali condurre l’esistenza: non si dà pensiero senza che ci sia prima un’esperienza – vissuta con il corpo – che la informa, la accoglie e la determina[3]. Così facendo, il teatro diviene un principio di conoscenza, di se stessi in primo luogo.

    II.

    Il teatro è il luogo della visione.

    Tuttavia la questione qui è quella di capire cosa si va a vedere e cosa si vede sulla scena di Leo de Berardinis.

    Allora ciò che si vede in scena è letteralmente ciò che non si può vedere nelle condizioni abituali. La scena è uno scarto leggero, quasi inavvertibile, uno sfasamento che produce una «sospensione» del fin qui visto e del fin qui sentito. Dunque ciò che si rivela è la «natura delle cose».

    Non uso a caso questa locuzione. La introduco richiamando un frammento di Eraclito: physis kryptesthai philei, che Giorgio Colli traduce con «la natura ama nascondersi»[4]. Che cos’è questa Physis (natura)? Non si tratta semplicemente della natura compresa dal punto di vista fenomenico, piuttosto essa deve essere compresa sul versante della sua processualità, indicando con physis «il processo interno che costituisce le cose». Solo così diventa comprensibile quel kryptesthai che, in Eraclito, ha il senso di «celarsi alla conoscenza». Stando così le cose, il significato del frammento potrebbe essere interpretato in questo senso, come sostiene Pierre Hadot, «il processo che dà la nascita alle cose tende a scomparire»[5], giacché presenta il tratto antitetico che è caratteristico del pensiero eracliteo.Ed è proprio questo essere antitetico – l’uno e l’altro insieme – alla base della costituzione degli enti a prendere forma nel teatro di Leo de Berardinis fin dalla Faticosa messinscena dell’Amleto di William Shakespeare (1967) – composto con Perla Peragallo – per arrivare a past Eve and Adam’s (1999). Ciò che esso dà a vedere, dunque, non è altro che il processo che sottende e rivela la trasformazione interna che governa ogni cosa.

    Torniamo allora, per un istante, alla nostra domanda di fondo: cosa si va a vedere a teatro?

    Si va a vedere – sembra essere la risposta – ciò che non si può vedere, vale a dire la «verità» in forma d’immagine. E Verità in forma d’immagine è quella su cui si dibatte e quella che si cerca nel Simposio platonico; «verità» è quella che Amleto investiga servendosi del teatro. È un vedere che ha uno statuto speciale: si vede in controluce, si vede in modo radiografico: là dove Linceo – colui che sa vedere attraverso – incontra Amleto. Qui si parla di quella visione che arriva dai misteri e che vuol dire sottrazione dello sguardo per poter vedere. Bisogna tenere a mente, in questo schema di ragionamento, la figura di Tiresia, che per poter vedere in profondità deve essere privo di occhi. Ma soprattutto Edipo per poter vedere davvero, vale a dire per conoscere fino in fondo la sua condizione, deve accecarsi e accedere così a un’altra dimensione. È questo passaggio tra le dimensioni a essere interessante. È esattamente in questo senso che la scena contemporanea concepisce il teatro, come un’interrogazione consegnata allo sguardo dello spettatore. Una interrogazione al cui fondo sta sempre un principio di conoscenza. Ed è qui un aspetto poco sondato della pratica scenica di Leo de Berardinis che vale la pena mettere in evidenza: per raggiungere tale conoscenza, è necessario adottare una condotta, inscriversi in un’andatura. È necessario in altre parole fare del teatro, così come per la filosofia, un esercizio spirituale – un’arte di vivere – nell’accezione che gli tributavano gli antichi, gli stoici in particolare. La filosofia, come il teatro, appare così una pratica del pensiero per rifare la vita[6]. Questo aspetto, nell’opera di Leo de Berardinis, ne apre un altro, il legame imprescindibile che lega la scena teatrale e il sacro: la loro comune tensione verso l’incommensurabile. L’incommensurabile è allora quell’elemento di cui avvertiamo le caratteristiche, ne subiamo la malia, ma che non siamo in grado di fissare in una descrizione e che solo la poesia – solo la voce – può evocare, invocare, chiamare.

    III.

    Ogni invocazione chiama in causa la voce, la phoné come elemento non riconducibile alla chiarezza dei messaggi, quanto all’esplorazione sonora della voce. Essa non è più solamente il luogo della narrazione – a rigore, in questi lavori, lo spazio narrativo è ridotto ai minimi termini – e diventa piuttosto una vera e propria potenza sonora, che precede e anticipa la significazione. Parliamo di una dimensione eminentemente fonetica, messa al servizio di un «teatro della voce»[7].

    Da questa riflessione emerge come il teatro di Leo de Berardinis sia portatore di un pensiero sonoro autonomo che eccede il quadro di riferimento della «musica di scena». Ne è un esempio il costante ritorno di Leo de Berardinis alla musica e alla poesia come elemento sonoro, evocativo, capace di aprire immagini nella mente dello spettatore[8].

    Tale tensione sonora della scena la ritroviamo fin dal quaderno di Sir and Lady Macbeth del 1968 – anno in cui, lo ricordo, Leo de Berardinis e Perla Peragallo lavorano alla messa in voce del Don Chisciotte (1968) con Carmelo Bene e Lydia Mancinelli e con loro anche Clara Colosimo, Gustavo D’Arpe e Claudio Orsi  – dal quale emerge in modo chiaro la scrittura vocale in pagine in cui il testo dello spettacolo è organizzato come un pentagramma dal quale traspaiono, per esempio, i segni del solfeggio e delle intonazioni del recitato. Si tratta, in altri termini, di una vera e propria partitura musicale, secondo una logica che Leo de Berardinis e Perla Peragallo perseguiranno con tenacia fino alla fine, anche se da percorsi e con sviluppi estetici diversi. Questo investimento musicale della scena permette di impostare un ragionamento che fin dai primi lavori vede Leo de Berardinis e Perla Peragallo impegnati nella ricerca di una phoné della scena che non ha ancora trovato una sua cornice teoretica. Degno di nota, in questo senso, è anche la riflessione sull’amplificazione, che emerge chiara dai quaderni. I lavori fin qui citati vedono sempre in scena la presenza dei microfoni, veri e propri dispositivi di amplificazione-alterazione della vocalità e dei rumori-suoni della scena.

    Questo permette di avanzare, in chiusura, un’interpretazione secondo la quale, ben oltre il rilevare una relazione di prim’ordine con la musica, la messa in scena è impostata come una partitura, con i suoi accenti, i suoi tempi e i suoi timbri, dentro una struttura che già lascia prefigurare un modello di messa in scena adottato nei lavori successivi – mi piace ricordare il periodo del Teatro di Marigliano, a partire dal 1972, con spettacoli come ’O Zappatore o Sudd del 1974 – votata all’improvvisazione sullo stile del free jazz[9]. Questa dimensione sonora – anche se in modo scenicamente asciutto, in cui la centralità della voce si precisa ulteriormente – si prolunga negli anni Ottanta in lavori come Dante Alighieri (1984), il Cantico dei cantici (1985) o ancora Il fiore del deserto da Giacomo Leopardi (1988) per arrivare poi a past Eve and Adam’s, variazione sul tema della scrittura poetica di autori – da Joyce a Leopardi, passando per Omero, Shakespeare e Rimbaud solo per citarne alcuni – concepita come insieme di «appunti sonori» con i quali congedare, nella presenza della voce, la messa in scena

     

     

     

     

    [1]Si veda, per capire l’opera di Leo de Berardinis, il contributo imprescindibile di G. Manzella, La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis, Firenze, La casa Usher, 2010 (1993).

    [2]La ricerca che sto conducendo è all’interno del progetto INCOMMON. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979), finanziato dall’European Research Council (ERC Starting Grant 2015) e diretto da Annalisa Sacchi – in collaborazione con chi scrive, Stefano Tomassini, Stefano Brilli e con Maria Grazia Berlangieri, associata al progetto e afferente all’Unità di Roma La Sapienza – e ospitato presso l’Università Iuav di Venezia. Colgo inoltre l’occasione per ringrazia qui Carola de Berardinis, figlia di Leo, per aver accolto la mia richiesta e per la fiducia accordatami nello studio di materiali così preziosi. Ringrazio inoltre il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, alla direttrice dell’archivio prof.ssa Cristina Valenti e alle bibliotecarie – Dott.ssa Menetti e Dott.ssa Cupini – che ne conservano con cura il materiale.

    [3]Riconosco in questa attitudine di Leo de Berardinis quello che chiamo, sulla scorta di Romain Rolland, un sentimento oceanico. Cfr., R. Rolland, Un beau visage à tous sens. Choix de lettres de Romain Rolland (1866-1944), Paris, Albin Michel, 1967, p. 264-266. Tale nozione compare per la prima volta in una sua lettera a Freud del 5 dicembre 1927, in cui Rolland fa appello a quella particolare sensazione di appartenenza all’«eterno», aspetto che a sua volta trae da Spinoza, per la precisione nel passaggio dell’Etica in cui il filosofo invita a vederele cose sub specie aeternitatis, «sotto l’aspetto dell’eternità». Cfr., B. Spinoza, Etica, Milano, Mondadori, 2007, V, prop. XXXVI, scolio, pp. 735-736.

    [4]G. Colli, La natura ama nascondersi, Milano, Adelphi, 1988.

    [5]P. Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, Torino, Einaudi, 2006, p. 8.

    [6]Non a caso la figura di Amleto è per Leo de Berardinis un punto costante di ritorno nella propria vita scenica: ogni ritorno ad Amleto segna una svolta che al contempo è artistica e biografica, la cui ricaduta è sul piano dell’esistenza.

    [7]Qui gioca un ruolo centrale anche il tema dell’amplificazione, aspetto che Leo de Berardinis ha sempre adottato – con Perla Peragallo – fin dai primissimi lavori degli anni Sessanta.

    [8]Si noti qui la matrice ancora una volta antica di questa idea di teatro: come per la tragedia antica, l’immagine non era davanti agli occhi degli spettatori, ma suscitata in loro dalla metrica del verso cantato.

    [9]In modo del tutto speculare, e impeccabilmente documentato dai disegni della scena oltre che dalle immagini fotografiche contenute nell’archivio, la scena prevedeva la libera improvvisazione di tutti gli attori in scena secondo l’estro del momento. Al pari dell’interpretazione del free jazz – o anche detto free form – la scena di De Berardinis e Peragallo opera secondo una totale frammentazione e irregolarità del ritmo a favore di una dimensione atonale che può sfociare perfino nel rumorismo, nell’assorbimento di tradizioni linguistiche provenienti dalla rielaborazione scenica dei dialetti del sud e soprattutto nella tensione, intesa come intensità e liricità, che talvolta assume caratteri orgiastici e liberatori.

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