Non dev’essere un caso se a New York, negli stessi giorni, capitava di sentire Shirin Neshat parlare della sua prima performance live come di un tentativo di mettere lo spettatore al centro di un’esperienza di pericolo; costeggiare una parata in memoria dell’11 settembre e seguire gli appuntamenti, non tematizzati ma uniti da un filo rosso legato alla violenza, di Crossing the line. Si tratta in quest’ultimo caso di un festival di arti sceniche e visive voluto dal French Institute che qui ha saputo creare una rete di relazioni importanti, a partire dal New York Live Arts di Bill T. Jones fino a spazi storici come The Kitchen e a realtà più giovani come PS122. È un’iniziativa virtuosa, al di là delle scelte del programma, perché mette insieme il meglio degli spazi e dei protagonisti coinvolti nel processo produttivo e organizzativo newyorkese. con alcuni artisti centrali nella scena europea, creando curiosità e dialoghi non d’occasione, come dimostrava l’affollamento di pubblico e la durata degli incontri successivi alle varie performance, capaci a volte di protrarsi per più ore.
Ha questo New York di bello, una certa immacolata curiosità della fruizione e una propensione al dialogo che devono essere elettrizzanti anche per gli artisti, a giudicare dall’intensità con cui li si vedeva partecipare agli incontri. Al di là di un cartellone a volte discontinuo, che avvicinava la sperimentazione di Cuqui Jerez nel Performance Garage all’installazione, totalmente autoindulgente e compiaciutissima, specie se confrontata coi lavori belli che già fece a New York, di Sophie Calle in un albergo di lusso dell’Upper East, il lavoro fatto da Crossing the Line è di quelli che meritano di mettere radici profonde.
E un certo sconforto assale, se si pensa a quali siano invece le attività che i vari Istituti, associazioni e centri per la promozione dell’arte italiana facciano in città, quasi che quell’ignavia idiota, quel clientelismo e quel livellamento al basso delle istituzioni e dei rappresentanti della cultura del governo italiano infettasse poi non solo le propaggini all’estero di quelle stesse politiche, ma anche realtà che tutto sommato potrebbero essere indipendenti e invece languono di fronte a platee semivuote e per lo più addormentate tra velluti e luci basse.
Non così i francesi, attivissimi e intraprendenti nel creare collaborazioni, incontri, dialoghi. Capaci soprattutto di far crescere in poco tempo un festival che, presentando alcune realtà importanti della scena europea, è stato capace di rivaleggiare col ben più blasonato Performa, che già solo per il nome della sua direttrice, RoseLee Goldberg, è diventato nello stretto giro di poche edizioni uno degli eventi di punta dell’autunno newyorkese.
In questa occasione intendo riflettere brevemente su due delle proposte del programma di Crossing the Lines, entrambe prodotte dal coreografo-simbolo di questa edizione del festival. Perché certamente l’artista più celebrato in scena e nel corso di un incontro molto affollato condotto da Alessandra Nicifero alla Maison Française della Columbia University, è stato Rachid Ouramdane. Celebrato a ragione anche, sia per la qualità del suo lavoro che per una certa generosità non retorica nel raccontare le urgenze che lo muovono.
La sua esperienza autobiografica, d’essere figlio di algerini, di avere un padre vittima di tortura, di aver cercato le tracce della storia sua e di tanti immigrati di seconda generazione in Francia, rimane nella trama discreta e nel repertorio delle ragioni profonde dei due spettacoli presentati, non è mai ostensione compiaciuta del registro del vissuto sulla scena (siamo qui lontanissimi da Sophie Calle, Ouramdane è per così dire dall’altra parte dello specchio in cui l’artista guarda se stesso).
In Ordinary witnesses una lunga sfilata di voci riempie la scena. Interviste con vittime di tortura condotte da Ouramdane nel corso degli anni, soggetti a cui la ratifica di un nome o di un’identità precisa non aggiungerebbe nulla e che perciò sono presentati nella nuda evidenza di un fatto, di un dettaglio, di una conseguenza che s’è impressa nelle loro esistenze. Del resto Simone Weill aveva ragione a sostenere che la violenza fa di chi le sia sottoposto un oggetto, e questo diventano i testimoni chiamati da Ouramdane, oggetti che lo spettatore-voyeur vorrebbe prima svelare, stanare dall’anonimato anche geografico o temporale (a quando si riferiscono gli eventi che raccontano? Dove si sono svolti?) che li avvolge per poi, via via che gli episodi descritti diventano più intollerabili, cedere alla seduzione dell’impersonalità, che lascerebbe il racconto tutto sommato disincarnato e dunque remoto, inavvicinabile.
E invece in scena balena l’acciaio di una cornice a bordare un video, e nel video sfilano, lentissimi, dei volti. Che si riferiscano alle voci che ascoltiamo o meno è indifferente: nell’apparizione del volto, nel suo mistero, si concentra tutto l’impensato dell’ingresso dello spettatore nella scena della violenza. E forse questo basterebbe, perché poi la venuta dei corpi a stento tiene il peso di quanto la scena ha sostenuto fino a quel momento, e anche se il loro tocco è discreto, salvo un momento di climax e forsennamento in cui una danzatrice continua a ruotare su se stessa per istanti lunghissimi, ben oltre l’estenuazione, tuttavia è l’intensità dell’inizio che lo spettatore continua a cercare e che si scioglie lentamente in una scena spoglia, popolata di apparizioni vestite di grigio ed estenuate dalla flessibilità che gli fa inarcare la schiena lasciandoli a terra, spoglie per Ouramdane della malleabilità con cui ci adattiamo alla violenza.
Ed è la stessa violenza che balena nel suo bellissimo World Fair, con lui solo in scena accompagnato dal polistrumentista Jean-Baptiste Julien. Una scena tutta affollata di strumenti musicali, al cui centro ruota un lungo bilanciere che è anche una telecamera e che di quando in quando restituisce in video spezzoni di scena. Ouramdane appare qui in tre versione ugualmente stereotipiche, tutte dialoganti con un doppio moltiplicato nelle proiezioni video che lo ritraggono prima come un nazi contemporaneo, poi come lo stereotipo coloniale nel Negro, infine col volto orgoglioso del colonizzatore, con un viso paradossalmente truccato con macchie mimetiche rosse bianche e blu. Alla fine, da questa scena della violenza non origina nulla, nessun messaggio è consegnato allo spettatore, nessuna ingiunzione ad agire (per far cosa poi? Come se il risultato più alto, più politico che il teatro possa ottenere non sia quello, semplicemente, di far fermare lo spettatore e lasciare che possa pensare l’impensabile della violenza), ma come l’alito di una rivelazione che le cose possano andare diversamente. È forse quest’imminenza di una rivelazione, che tuttavia non si produce, il fatto più rilevante della scena di Ouramdane.