• Una tranquilla serata di danza. O forse no. Forsythe e Waltz alla Biennale di Venezia

    Tornano i maestri alla Biennale danza. Tornano due artisti che più lontani non si potrebbe dare, William Forsythe e Sasha Waltz. Lontani per età e per provenienza geografica, ma ancor più lontani per la tradizione cui fanno riferimento, da un lato la rivisitazione del balletto novecentesco, dall’altra quella più recente del teatro di danza. Il festival diretto da Marie Chouinard, giunta al terzo anno del suo mandato, sembra così compensare il rilievo dato a una generazione più giovane, testimoniato dal Leone d’oro assegnato ad Alessandro Sciarroni che ha il merito anche di dilatare i confini della danza, a costo di indispettire qualcuno o qualcuna. Al di là della sezione “college” che ha il compito statutario di promuovere nuovi artisti, a prevalere infatti sono soprattutto i trenta-quarantenni, dalla brasiliana Michelle Moura all’ancor più giovane islandese Bara Sigfúsdóttir, per citare solo due nomi fra tanti.

    A quiet evening of dance di William Forsythe, che si era visto a Brescia e Reggio Emilia nei mesi scorsi, è una sorta di lezione sul “funzionamento” del balletto classico, costruita attraverso la riproposizione di alcuni lavori del coreografo statunitense. Dunque, in qualche modo, potrebbe apparire anche una summa della sua visione coreografica. Per altro non così monolitica come vorrebbero i cultori della tradizione a ogni costo, non aliena cioè da qualche contaminazione teatrale, se ripensiamo al bellissimo e struggente You made me a monster di una più lontana stagione, capace di toccare il corpo con la mente nell’interrogarsi sulla forma del dolore; o alle nuvole di guerra evocate dai Three Atmospheric studies, che mettevano in relazione una fotografia dell’agenzia Reuters scattata in Iraq con la Crocifissione di Lucas Cranach esposta nella Pinacoteca di Monaco.

    Foto di Bill Cooper

    Qui invece sette danzatori, tra cui un performer hip hop, si alternano in una serie di numeri chiusi ma legati da una evidente progressione. Indossano costumi molto colorati, su cui spiccano i lunghi guanti che coprono le braccia. Quasi a rivendicare così un proprio carattere individuale. Nella prima parte dello spettacolo, una coppia di danzatori parte proponendo una serie di geometrici movimenti delle mani lungo il corpo, che poi si allargano a rotazioni delle spalle e del busto, a piegamenti delle ginocchia, nel silenzio in cui risuonano soltanto lontani cinguettii. È il prologo alle note pianistiche dei “nature pieces” del compositore statunitense Morton Feldman su cui i brevi pezzi successivi sviluppano in maniera più danzata quei movimenti di cui avevamo visto la genesi.

    Dopo l’intervallo lo spettacolo ha una prevedibile svolta. Quel groppo gestuale districato in precedenza in maniera fin troppo didascalica diventa la materia costituente del (e rende trasparente il) linguaggio coreografico, che si appoggia ora sulla musica barocca di Jean-Philippe Rameau. In un crescendo che porta al travolgente brano finale, in cui finalmente tutti gli interpreti sono in scena insieme. La tranquilla serata di danza promessa da Forsythe non tradisce il suo titolo. Virtuosistica quanto esangue ma tanto, tanto tranquillizzante.

    Sono sette i danzatori anche sulla scena di Impromptus di Sasha Waltz. Ma le analogie con il lavoro di Forsythe si fermano qui, grazie al cielo. L’avevamo vista ad Avignone una quindicina d’anni fa, questa creazione della giovane coreografa di Karlsruhe, allora a un passo dall’addio alla direzione della prestigiosissima Schaubühne berlinese che divideva con Thomas Ostermeier. E in quel momento poteva sembrare la spia di un desiderio di leggerezza, il ritorno a una dimensione più intima del suo lavoro, con un numero limitato di danzatori, dopo i grandi affreschi della trilogia dedicata al corpo e al sesso degli anni appena trascorsi al teatro sulla Lehniner Platz. E a suggerire l’idea di un cambio di rotta contribuiva anche il fatto che Waltz per la prima volta si volgeva alla musica romantica, lei che aveva sempre lavorato fin lì con la musica contemporanea.

    Foto di Sebastian Bolesch

    Ecco invece un pianoforte a lato della scena, dove una pianista esegue le composizioni di Franz Schubert che prestano il titolo al lavoro, suggerendo un’idea di improvvisazione che nella realtà non si concretizza. E a tratti vi compare accanto anche una cantante, a dar voce ad alcuni tristissimi Lieder del compositore viennese. Ma intanto sui due piani inclinati della scena ha cominciato a imbastirsi il flusso dei danzatori, spaziando da silenziosi assoli a straordinari duetti di corpi che si intrecciano, si appoggiano l’uno sull’altro, si trascinano in un inerte abbandono, per sfociare nei momenti più teatrali.

    Foto di Sebastian Bolesch

    Una coppia si presenta con ai piedi degli stivali pieni d’acqua che fanno risuonare i loro passi come uno sberleffo alla danza bien faite. Altri si chinano a disegnare sul palco cerchi rabbiosi. Ma più di tutti straordinario è il momento in cui i danzatori cominciano a imbrattarsi di un colore liquido, rosso e nero, tracciando righe di pianto e di sangue che dai corpi scivolano sul piano inclinato della scena fino a lasciarvi dipinta una vera e propria opera di action painting. Tutto allora si guasta, si corrompe, i vestiti leggeri si strappano. Poi nel palco si apre una vasca piena d’acqua. Le ragazze vi si immergono per ripulirsi. Solo una coppia continua la propria disperata lotta, sempre più stanca. Opera aperta e frammentaria, emozionante come solo il grande teatro può essere, Impromptus va oltre quella sorta di nostalgia capace di diventare aperto dolore di cui conservavamo memoria. Come se ora più di allora ci trasmettesse intatta la sua forze d’urto. Per niente tranquillizzante.

     

    © gianni manzella