La cosa più facile da dire è che Alain Platel è uno dei pochi artisti della scena contemporanea dotati di un riconoscibile linguaggio e tuttavia capaci ogni volta di sorprendere lo spettatore. Come se nel suo gioco scenico provasse ogni volta, con una continua mossa del cavallo, a spostare di sbieco gli elementi che muove senza uscire dal preordinato, geometrico disegno che li contiene. Sorprende l’immagine che si presenta all’improvviso accendersi delle luci sulla scena di tauberbach, che alle Fonderie Limone di Moncalieri ha aperto il festival Torinodanza. Una distesa di panni colorati tra cui a malapena si distinguono da principio i corpi degli interpreti che vi nuotano dentro. Ci sono anche due travi metalliche a traliccio che lentamente si sollevano portandosi via un po’ di quegli stracci e qualcuno di loro che balza giù con un salto. Il segno di un risveglio, l’inizio di un nuovo giorno.
Ma lo sguardo è catturato dalla donna più anziana che si è fatta avanti e ferma in primo piano inizia un discorso che sarebbe del tutto incomprensibile, nelle parole, se non fosse per la carica comunicativa espressa dalla voce, dal volto. Dice rivendicazione, rabbiosa protesta, persino rivolta. E infatti un’altra voce sembra risponderle, fuori campo, come una sorta di eco, ma forse è solo un’allucinazione uditiva, il sintomo di un’alterazione del pensiero. Che ora però riusciamo a comprendere bene, come sanno i suoi compagni, mentre racconta di come non manchi il cibo, in quel posto. Si potrebbero fare dei fantastici spaghetti.
L’attrice è Elsie de Brauw, un nome di rilievo sulla scena olandese – è fra l’altro sposata al regista Johan Simons, direttore del Münchner Kammerspiele che produce lo spettacolo insieme all’ensemble con cui opera l’artista fiammingo, i Ballets C de la B. A lei si deve il primo germe di questo lavoro, la proposta fatta a Platel di lavorare insieme a una creazione che mescolasse parola e danza, e anche il suo oggetto. È la storia di una donna brasiliana di nome Estamira, malata di schizofrenia, che vive in una discarica nei pressi di Rio de Janeiro e si è inventata un proprio linguaggio con cui comunica col mondo esterno, la piccola comunità che la circonda e forse ne ha fatta la sua regina. L’ha raccontata anche un film documentario, che entra fra i materiali dello spettacolo. Estamira dialoga con la voce interiore che nasce dalla sua mente divisa e non le dà tregua. Lei afferma il suo posizionamento il quel luogo che è tutta la sua realtà, che è tossico ma le piace, c’è il sole, ci sono un sacco di cose, dice. Ripete spesso di non essere d’accordo con la vita. Lui (perché è chiaramente maschile questo altro da sé) un po’ le fa il verso, un po’ le risponde con insinuante durezza: vai all’inferno, chi ti credi di essere.
Le fonti di ispirazione di tauberbach sono però svariate, come sempre avviene nelle creazioni di Platel. C’è la musica di Bach, a cui assai spesso si rifà il regista fiammingo (l’eponimo Iets op Bach, la Passione secondo Matteo che in pitié! rimandava a Pasolini e da lì alla Deposizione di Rosso Fiorentino…). E di quella musica c’è la particolarissima versione cantata da un gruppo di sordi, nata dal progetto di un artista polacco, Arthur Zmijewski – tauberbach si può tradurre infatti “Bach dei sordi” o qualcosa del genere. Li si ascolta in qualche momento, per brevi frammenti, in mezzo alla più nota aria sulla quarta corda o ai movimenti di un concerto per violino, però suonati dalla fisarmonica di Richard Galliano.
Si potrebbe pensare a un ritorno del teatro di Platel dentro il suo contesto, l’interesse per il disagio umano che sfocia nella malattia mentale, il mondo marginale dell’infanzia e delle periferie urbane, la sua stessa formazione di psicopedagogo che sperimentava forme di terapia, tutto ciò insomma che era disteso come una trama visibile in controluce nei suoi primi lavori. Le colorate diversità raccolte nella Tristeza complice… L’innocenza perduta sulla pista d’autoscontro dello stupendo Bernadetje… Qualcosa però è cambiato da qualche tempo nel lavoro di Platel, lo sguardo si è interiorizzato, si è spinto all’interno dell’individuo e l’ha portato fuori in una danza bastarda (la definizione è sua), dai movimenti sgraziati e tuttavia anche per questo emotivamente coinvolgenti. E questa danza viene subito alla luce anche qui, in questo nuovo contesto. La riconosciamo subito, in quel giovane uomo che più degli altri si muove a scatti, buttando indietro la testa in una gestualità animale che ricorda volutamente la straziante drammaturgia fisica di Out of context, la creazione dedicata da Alain Platel a Pina Bausch.
tauberbach si gioca a lungo su questa dualità. L’attrice che continua a dialogare con quella voce che non si sa da dove venga ma è presenza da lei accettata, di cui non è possibile sbarazzarsi. E i cinque danzatori che rotolano fra quegli stracci, li indossano e li tolgono, saltano l’uno sull’altro, improvvisano piccole gag, danno vita a una partitura gestuale che a tratti diventa collettiva, una vera e propria coreografia che però subito si spegne. Lei, immersa nel silenzio della scena; loro, quando parte la musica di Bach, su cui passa disturbante un continuo ronzio di insetti, a togliere di mezzo ogni ipotetico sublime. Un poco per volta quelle due realtà che apparivano separate si intrecciano, anche fisicamente. E allora bisogna dimenticare tutto quello che si è appreso intorno a questo spettacolo e che rischia di ostacolare la comprensione di quel che è meno facile da dire, che si deve necessariamente sperimentare. Estamira e le favelas brasiliane e tutto il corposo dossier di commento. Tornare “fuori dal contesto”. Mettersi in ascolto dell’evento di cui si è testimoni.
Ora si toccano si leccano si baciano, in un’improvvisa passione erotica che però non ha nulla di provocante, nella sua innocenza animale. Si sporcano con le mani di un colore nero d’inchiostro. Guardano cosa c’è dentro le mutande l’uno dell’altra. Baciano anche lei, la donna che sente le voci che dicono: lo senti? stai ascoltando? Forse stanno parlando a noi. Musica per sordi.
Si capisce allora che quei gesti, quei corpi hanno la stessa qualità di quella musica cantata da chi non la può sentire, la stessa disarmonica bellezza. Ed è un po’ una metafora dovremmo dire, se non fosse un termine così abusato, di una condizione umana, di una musica vitale che tutti non siamo più in grado di sentire. Che solo così, nello spazio di uno spettacolo, può rivivere.
Finiscono per raccogliersi in cerchio a cantare “Soave sia il vento”, il terzettino del Così fan tutte di Mozart: ed è in maniera evidente una sorta di cerimonia segreta, celebrata in pubblico ma da non svelare nelle sue più intime ragioni. Finiscono poi tutti in piedi, in una silenziosa immobilità, in attesa che l’applauso del pubblico li liberi dal sortilegio. Ci sarà forse qualcuno che ancora ricorda che da lì, da quella situazione di attesa avevano inizio i Mysteries del Living Theatre, uno degli spettacoli che hanno cambiato per sempre la storia del teatro. È passato mezzo secolo. Un cerchio sembra chiudersi. La fine di una storia. Ma è solo una suggestione passeggera.
© gianni manzella