Paolo Rosa è morto il 20 agosto. Per ricordarlo ripubblichiamo l’articolo di Elena Marcheschi (Art’o n°26, autunno 2008).
Manca veramente poco al festeggiamento dei trent’anni di attività di Studio Azzurro e, guardando a ritroso nella produzione della formazione milanese, è possibile ritrovare un’eterogeneità e vastità di produzione che abbraccia videoinstallazioni, videoambienti, spettacoli teatrali, film, progetti e realizzazioni per musei. Il gruppo stesso si definisce “un ambito di ricerca artistica che si esprime con i linguaggi delle nuove tecnologie”. Questo significa abbracciare settori di produzione che vanno ben oltre il video e i concetti più o meno canonici di installazione, cinema, spettacolo teatrale e museo stesso. Fondato a Milano agli inizi degli anni ottanta da Fabio Cirifino (fotografia), Paolo Rosa (arti visive e cinema) e Leonardo Sangiorgi (grafica e animazione), lo Studio ha intrecciato percorsi con svariate personalità artistiche: si pensi alla collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti, alle esperienze di teatro musicale con Pietro Milesi, Giorgio Battistelli e Moni Ovadia e alla folta rete di collaboratori che si sono susseguiti negli anni (un nome di spicco tra i tanti quello del documentarista Giuseppe Baresi), alcuni dei quali divenuti componenti stabili come Stefano Roveda, responsabili dei sistemi interattivi. È proprio grazie all’introduzione di questi sistemi, a partire dall’inizio degli anni novanta, che lo Studio ha intrapreso un nuovo percorso estetico verso una ricerca creativa che ha il sapore di opera d’arte “totale” e che ha modificato lo statuto dello spettatore in soggetto attivo, immerso e compartecipe creatore di un’esperienza sinestetica.
L’attività del gruppo è stata seguita, studiata e sostenuta fin dagli esordi da un nutrito dibattito critico che ne ha accompagnato maturazione e sviluppo, riconfermando lo Studio come uno dei soggetti creativi tra i più interessanti ed esplorati del panorama italiano.
Tra i tanti temi e le figure analizzate in numerosissime pubblicazioni – dal rapporto natura/tecnologia, realtà/irrealtà, narrazione, contemplazione, interattività, spettatorialità etc. – ce n’è uno forse meno sistematizzato che pure ritroviamo sotto forme diverse in molte opere dello Studio: la memoria. Si tratta di un aspetto complesso e visceralmente connesso alla radice stessa della nostra esistenza: essere, rappresentare, ricordare. Cosa rimane dentro di noi del mondo circostante, dell’esperienza passata? E cosa ne facciamo di tanti ricordi, pensieri, azioni vissute che non torneranno se non nella nostra memoria? Lo Studio, grazie all’uso delle più svariate tecnologie – sistemi interattivi, immagini a infrarossi, satellitari etc. – nei diversi percorsi creativi affrontati ha esplorato le dimensioni dell’immaginario personale e collettivo, indagando, ricostruendo e talvolta provando a dare forma artistica e visiva ai meccanismi di funzionamento delle memoria. Si colloca in tale ottica una delle prime opere del gruppo, Luci di inganni (1982), videoambientazione realizzata per promuovere creazioni di design della collezione del Gruppo Memphis. Oggetti veri – una teiera, un vaso…– dialogano con la rispettiva immagine riprodotta in video: dalla teiera esce il fumo, nel vaso dei tulipani appassiscono. Da una parte la cosa in sé concreta, dall’altra la vita osservata, registrata e poi rappresentata dell’utensile. È proprio il meccanismo fondato sul ricordo a dare valore e sostanza “all’inganno” visivo e artistico: quegli oggetti hanno un significato per noi perché ne conserviamo la memoria dell’uso e questa immagine viene garantita nell’installazione dalla componente in video che sovrappone in una situazione unica il concetto di realtà, quello di rappresentazione e di memoria. Da un discorso più strettamente collegato alle tematiche di sguardo e visione si passa a un livello più intimo e personale grazie alla collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti con il quale nasce, nel 1987, la seconda opera videoteatrale dello Studio, La Camera Astratta, “esplorazione di uno spazio mentale, illimitato come lo spazio del pensiero”1. La tecnologia entra a far parte del processo compositivo dello spettacolo, non come decoro o fondale, ma come soggetto.
In questo incontro-scontro tra attori in carne e ossa e attori rappresentati nei monitor ritroviamo la non linearità e disorganicità temporale assemblata ne “la camera astratta” della memoria, dove la perdita di coordinate permette il mescolamento, l’amplificazione e la complicazione. Vita e ricordo si fondono e respingono in una vertigine che gli attori stessi ripropongono nell’attrazione e repulsione dei loro corpi, nelle repentine cadute, negli abbracci, nelle aggressioni, nelle apparizioni e nelle scomparse. Il tutto in una concatenazione tra azioni performative che si compiono sul doppio livello del reale e del rappresentato, senza uno svolgimento temporale, senza una vera storia da narrare ma un inanellamento di considerazioni, frasi che riecheggiano e che parlano di ricordo, di perdita, di confusione, della ricerca della pace, della chiarezza. Questo antro nero e indefinito della memoria diventa un groviglio in cui i pensieri si formano e le persone si tras-formano, dove tutto scivola trascinando via un peso enorme per ritornare al momento di partenza, dove ogni cosa si tiene in equilibrio tra il restare e l’allontanarsi.
Pochi anni dopo, con l’opera videomusicale Il combattimento di Ettore e Achille del 1989, lo Studio affronta il passato epico dell’Iliade, confrontandosi questa volta con una memoria di tipo collettivo. Il contemporaneo incontra la storia letteraria in una rivisitazione del passo omerico coreografata e presentata sotto forma di installazione a due schermi con immagini sincronizzate e una struttura narrativa divisa in sei blocchi: vestizione-svestizione; incontro; combattimento; lacerazione; lamentazione; e infine memoria. La dettagliata scena letteraria viene riproposta dallo Studio in modo sintetico, al limite dell’astrazione: due opposti – una donna e un uomo – si fronteggiano a mani nude sulla terra rossa e con gesti simbolici ripropongono il combattimento presentato da due monitor che si aprono come occhi sul passato, filtrandolo e trattenendone l’essenza, senza orpelli.
Un lavoro che, oltre ad essere rilettura e omaggio all’opera letteraria, mima una delle attitudini tipiche della memoria, quell’aspra e inevitabile sintesi che condanna il passato più remoto ad un filtraggio inevitabile che scarnifica eventi, salvandone però la componente poetica.
In questa metafora del processo di rimozione o esclusione selettiva operata dalla memoria si inserisce un’altra opera, Il giardino delle cose, videoambientazione per immagini a infrarossi realizzata nel 1992. Ancora una volta i protagonisti sono gli oggetti che, ripresi da telecamere a infrarossi, diventano visibili, quindi vivi e significativi, solo grazie al calore delle mani che li toccano. Attraverso un processo di cura e protezione questi oggetti, scaldandosi, esistono per scomparire una volta raffreddati. Come i ricordi preziosi che restano in vita finché la memoria si prenderà cura di loro, lasciando andare ciò che si deve perdere, nel buio della dimenticanza.
Ma cosa accade quando il pericolo diventa opposto e cioè quando si genera un sovraccarico di immagini, di pensieri, parole? “Mi sento come un magazzino polveroso, dove si è mischiato di tutto, dove si è mischiata ogni cosa, dove tutto si confonde e riemerge senza più controllo. Io non so più cosa ho vissuto veramente e cosa ho immaginato di vivere per poterlo ricordare. Sono arrivato a un punto di saturazione che nessuno potrebbe immaginare. Ora devo ripulire la mia testa…imparare a dimenticare, fermare quello scaturire continuo di immagini inutili, cancellare ciò che non serve e non mi è mai servito…”. Finisce con queste riflessioni del protagonista il film di Paolo Rosa Il Mnemonista, realizzato dallo Studio nel 2000, ispirato alla storia vera di un caso descritto nel 1965 dal neuropsicologo Alexander Lurija, quello del violinista russo Cerecevskij “affetto” da un’incredibile capacità di memorizzazione visiva. Una vicenda affascinante che ha ispirato anche lo spettacolo Je suis un phénomène di Peter Brook e uno dei racconti del libro Finzioni di Borges. Un film intenso e onirico sulla tragedia personale di un uomo fiaccato dalla propria stessa incapacità di dimenticare, poiché la memoria è visione e il ricordo si fa immagine, un uomo che diventa emblema e metafora di una società contemporanea ossessionata e bombardata da contenuti e immagini, troppo spesso un gorgo indistinto che strappa le maglie di una memoria autentica ed oggettiva.
Negli ultimi anni Studio Azzurro si sta dedicando alla rivitalizzazione di alcuni spazi museali grazie all’introduzione dei sistemi interattivi che rinnovano e danno nuova vita alle memorie di cui questi luoghi sono detentori e promotori. Un esempio per tutti il progetto del 2000 per il Museo della Resistenza di Fosdinovo dedicato a promuovere la memoria storica della resistenza nelle zone di Massa Carrara e La Spezia. Tavoli, pareti, libri virtuali con i quali lo spettatore può interagire, riscoprendo immagini e racconti di una popolazione oppressa dal regime nazi-fascista. Un ulteriore esempio di come le tecnologie possano aiutare la memoria collettiva a mantenere vivo un passato che rischia di perdersi, preservando quel patrimonio che nutre il senso dell’esistenza personale e della collettività.
Immagini tratte da: Studio Azzurro – Immagini vive, Milano, Electa, 2005.
1 V. Valentini, (a cura di), La camera astratta. Tre spettacoli tra teatro e video, Milano, Ubulibri, 1988.