• Una nuova vita, o la sua imitazione. Imitation of life di Mundruczó Kornél

    Si era capito subito che c’era di più del talento nel lavoro creativo di Mundruczó Kornél, quando il regista ungherese si era affacciato sulle scene europee con il disturbante Frankenstein-Project, una decina d’anni fa. E già si era cominciato a vedere i suoi film, subito premiati nei festival, come la cruda parabola familiare di Delta o la sinfonia di White God, che trasferivano su un altro mezzo la crudeltà del suo teatro. Imitation of life, scritto da Kata Wéber, non è probabilmente il suo capolavoro, come con comprensibile enfasi afferma il programma di sala del festival Vie, dove lo spettacolo ha debuttato. Non ha l’implacabile forza dello sconvolgente Disgrace che Mundruczó aveva tratto dal romanzo di J.M. Coetzee, rovesciando la prospettiva da cui guardare l’episodio di violenza che ne sta al centro. Ma quella durezza, quella crudeltà le ritroviamo tutte, come se per il regista fosse l’unica strada per ritrovare la vita, non la sua imitazione.

     

    Foto di Marcel Rév

    Qui si parte dal primissimo piano del volto di una anziana donna (Lili Monori), proiettato su un grande schermo quadrato. Di origini zingare si scoprirà di lì a breve. A riprenderla con una videocamera è un uomo che non vediamo ancora, l’incaricato di una società che si è impossessata dell’appartamento in cui abita la donna e ora vuole sfrattarla. E da quel dialogo ineguale un poco alla volta è la storia della sua vita che viene fuori, cioè anche una storia collettiva di orgoglio e discriminazioni, di identità e di rifiuto delle proprie origini. Il figlio che è fuggito di casa perché non vuol essere come loro, non si sente come loro, si è persino tinto di biondo i capelli. Mundruczó non si tira indietro davanti alle contraddizioni. La genesi dello spettacolo attinge a una notizia di cronaca. Un delitto a sfondo razziale avvenuto a Budapest, l’uccisione di un giovane rom su un autobus, salvo che poi si era scoperto che era rom anche il suo aggressore. 

    E allora lo schermo si solleva, si rivela la quarta parete di una scatola scenica che ci appare come una navicella spaziale sospesa nel vuoto. Un appartamento di due stanze che si innestano l’una nell’altra, ingombre di cose. Elettrodomestici, tavoli e divani, pensili e contenitori. La donna ha un malore, lo spietato inquisitore si affanna ora con gli sms per chiamare i soccorsi, anche se non dovrebbe le ricorda che malata com’è per legge non può essere mandata via di casa. Poi tutto si confonde. La scena si oscura. Uno scroscio di pioggia annebbia le immagini oniriche della donna che vaga per un albergo alla ricerca del figlio. 

    In quel momento si produce una specie di terremoto. La scatola scenica comincia a ruotare lentamente intorno a suo asse e tutto comincia precipitare; quando ha compiuto un giro completo ci sono solo macerie. Lì si aggira un’altra donna, più giovane (Annamària Làng). La nuova inquilina, forse non meno disastrata dalla vita della precedente. E tutto sembra ricominciare, l’uomo violento a cui non sa sottrarsi e il figlio ragazzino. It’s a new day, It’s a new life for me, canta beffardamente la voce di Nina Simone.

    © Gianni Manzella

     

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