• Un Sacre per il terzo millennio. L’inventario dei bagliori di Gisèle Vienne a Roma

    Il bianco e il nero si rispecchiano all’ingresso negli spazi del Mattatoio, cuore vibrante da sempre di Short theatre, anche se quest’anno il festival romano di settembre si allarga a occupare altri spazi più istituzionali, dal Vascello all’Argentina e oltre. Di un diafano biancore è il volto della bambola che Gisèle Vienne ha eletto a simbolo del proprio teatro e qui vediamo moltiplicarsi nei quaranta ritratti che l’artista franco-austriaca ha allineato su due pareti che si guardano. Visione inquieta di un’infanzia solo allusa eppure difficile da rimuovere quando, all’ultima stazione dell’installazione, prende fisicamente forma nel suo simulacro, il manichino esanime che giace in una posa scomposta, sparse tutt’attorno le caramelle gommose che non ha fatto in tempo a mangiare. C’è un corpo disteso a terra, come senza vita, anche all’inizio dello spettacolo che va in scena lì accanto, alla Pelanda. Il corpo nero di Cherish Menzo. Materia oscura ma anche questione aperta, dice il titolo DARKMATTER, lo trascriviamo così come è scritto a programma. Cancella il lato oscuro, resta comunque la questione.

     

    Immagine ossessiva, questo corpo femminile inanimato, che si ripete anche al centro del gelido involucro troppo bianco dove Gisèle Vienne ha allestito L’étang, riscrittura per due attrici di un racconto giovanile di Robert Walser. Qui accostata però al gruppo di manichini molto colorati che si affolla attorno e sopra un piccolo letto, che pure sembra alludere a una giovinezza ancora in fiore – solo dopo verrà da pensare che si tratta dei personaggi del racconto, portati via tutti con delicata lentezza da un servo di scena. Cioè sottratti allo spettacolo, prima che un’azione abbia inizio. Che infatti non c’è, azione. Tutto è pensiero, ripetitivo e a tratti delirante, non a caso anche vocalmente deformato, di un’unica mente che dentro quell’algida scatola cranica si recita tutti i personaggi, rivolto all’interlocutore che si è creato.

    L’étang – Foto di Claudia Pajewski

    Lo stagno del titolo è quello dove il protagonista adolescente minaccia di annegarsi per guadagnare l’attenzione della madre, da cui non si sente amato. Così si accorgeranno di lui, si ripete mentre racconta dei pranzi di famiglia e dei suoi silenzi, chissà quante volte lo avrà fatto. La prova del dolore. Le due interpreti sono entrate con passo lentissimo da una fessura nera, alta e stretta, che si è aperta sul fondo. Sono l’eclettica Adèle Haenel in gesti e vesti da ragazzo (poco più che trentenne ma molto cinema, anche premiato, nel suo curriculum) e la più sinuosa Henrietta Wallberg, immedesimata nella figura materna che le è stata assegnata, personificazione della famiglia che uccide. Ma cosa c’è al di là? Oltre la soglia per un attimo si è aperta sul fondo, come uno squarcio sulla realtà. Viene in mente La porte noire che Matisse dipinse negli anni della seconda guerra mondiale. Togli i colori fiammeggianti del pittore francese, il rosa intenso della parete, il giallo e il rosso della veste che indossa la donna senza volto in attesa di qualcosa che possiamo soltanto immaginare – ciò che resta è la striscia nera sul fondo che calamita lo sguardo. L’esterno che preme sull’interno – e sappiamo che di là c’è una guerra. Alla fine sarà ancora l’aprirsi di quella porta nera che le porta via.

     

    Il lavoro di Gisèle Vienne nasce dalla danza e dal teatro delle marionette, accreditato di uno spessore filosofico che forse non giova alla sua comprensione. È semmai il corpo il fulcro del suo lavoro, nell’incrocio (ma anche l’antagonismo) fra quello artificiale della bambola e quello che sorge dalla coreografia – l’immagine che da esso “prende corpo”, la forma della rappresentazione. Dove la presenza umana può muoversi in mondi ipotetici, non precisamente reali. Non a caso il movimento viene rallentato fino ad approssimare la fissità dell’oggetto.

     

    Si cambia completamente clima espressivo nel bellissimo Crowd presentato sul grande palcoscenico dell’Argentina, ricoperto da un uniforme strato di terra – lo si era già visto qualche anno fa a Dro. Entrano in scena esibendo un accentuato moto rallentato, molto cinematografico, mentre già la musica techno esplode a volume altissimo con il ritmo martellante di sintetizzatori e drum-machine. La prima che emerge dalla penombra con quel passo lentissimo ha il cappuccio della felpa tirato sul capo e sneakers in versione glitter che ormai non sono nemmeno più glamour, arrivano anche dalla Cina, e una lattina in mano da cui ogni tanto beve un sorso. Quando arriva al centro sul viso le compare un sorriso, rallentato anch’esso cioè reso percepibile nel suo formarsi. E sembra permanere come quello famoso del gatto del Cheshire. Gli altri la seguono a piccoli gruppi, tutti più o meno abbigliati nella stessa maniera, felpe e k-way e zainetti, per dire che arrivano da altri luoghi. Sono tanti, una folla appunto.

    Crowd – Foto di Claudia Pajewski

    La terra che ricopre la scena suggerisce l’idea di un luogo aperto e dunque di un rave, un raduno giovanile. Non sembrano conoscersi in tanti, lì nel mezzo, però qualcuno si abbraccia, due si scambiano una sigaretta. Quando quel moto collettivo ondeggiante si è trasformato in una danza, d’improvviso appare un’intrusa. È più anziana di quei ragazzi, non si sa come sia finita lì, sporca e malmessa com’è, in mano una borsa della spesa di plastica. Qualcuno la guarda, le si fa incontro ma senza ostilità. Piuttosto è lei che sembra incerta su cosa fare, andare o restare. A un certo punto cava dalla borsa una busta si patatine e comincia a buttarle per aria.

     

    Per un momento, a un cambio di ritmo della musica, tutti si immobilizzano in una sorta di fermo immagine. Poi riprendono con movimenti a scatti, riproducendo quell’effetto che nelle discoteche è provocato dalle luci stroboscopiche. Nel ballo si sono liberati degli abiti che li impicciavano, lasciando emergere le loro diversità e dunque in qualche modo dei personaggi. C’è la giovane beur con le treccine. Quella con la maglietta che dice NO WAY e l’altra dal corpo androgino che manifesta chiaramente le sue preferenze sessuali. Il ragazzo che tiene la camicia calata da una spalla e sembra insensibile agli stimoli esterni, come se le sue capacità emozionali si fossero inceppate e forse per questo è in grado di accostarsi più degli altri all’intrusa. E quella dell’inizio, persa la felpa, rivela lunghi capelli biondi che scendono sul corpo ambrato e un completino verde oro che fa tanto bandiera brasiliana. Ma se compaiono dei personaggi, parafrasando Čechov, prima o poi daranno vita a delle storie. È tempo di eros e anche di confronti fisici, faccia a faccia, fra i maschi del gruppo che vorrebbero essere dominanti. C’è un sustrato di violenza che si percepisce in quei corpi che a volte si accaniscono l’uno sull’altro. Senza che sia resa mai esplicita, la violenza che si consuma, trascinata via anch’essa, per così dire, nel flusso della musica sintetica che fa da indissolubile legante.

    Un rave dunque. Alla fine ci sarà infatti anche il necessario chill-out, il rilassamento della musica e dei gesti, prima che qualcuno cominci a raccogliere le proprie cose per uscire. Lentamente com’era entrato. Eppure resta il sospetto che uno sguardo sociologico sia l’ultima cosa che interessa Gisèle Vienne. Che il rave sia in fondo una maschera. E che quello cui stiamo assistendo, la festa come rito collettivo, sia piuttosto il corrispettivo ai giorni nostri del Sacre du printemps che un secolo fa fece scandalo a Parigi, in una tumultuosa serata passata alla storia del teatro musicale grazie ai Balletti russi di Djagilev e naturalmente la “grazia innaturale” di Vaclav Nižinskij. Un Sacre per il terzo millennio. Sarà il ritrovarvi la stessa commistione di sacro e di arcaico (Quadri della Russia pagana era il sottotitolo esplicativo dell’opera di Stravinskij). Lo stesso ritmo ossessivo marcato dalle percussioni. L’abbandonarsi alla danza degli interpreti nel succedersi delle scene prive di una trama. La sensualità fluida che esprimono.

     

    Questa suggestione ci aiuta forse a leggere in maniera un poco diversa il microcosmo che Vienne crea e disfa nel tempo che dura Crowd ribaltando quello familiare de L’étang. Da un po’ ci siamo accorti che una ragazza è uscita dal gruppo, se ne sta immobile in primo piano. Forse piange. Non ha la forza di ribellarsi. La violenza che avevamo percepito assume una diversa concretezza. Un’altra le si accosta e la prende fra le braccia, componendo una plastica Pietà. Tutta al femminile. Consolazione, solidarietà, sono le prime parole che vengono in mente. Teniamole da conto anche in mezzo alla folla.

     

    © Gianni Manzella

    Post Tagged with