• Tre volte Ibsen. Lo zodiaco femminile di Ostermeier

    A Berlino, a Berlino, a Berlino. A chi si interroga sulla crisi della regia nel teatro attuale non si può che consigliare un viaggio nella capitale tedesca, che i voli low cost rendono ormai più facile della gita a Chiasso cui da ragazzi ci sollecitavano i maestri. Si può per esempio andare a vedere come Thomas Ostermeier affronti il teatro di Ibsen, l’autore norvegese è tornato in auge su tutti i palcoscenici in questa stagione nell’occasione del centenario della morte e rappresenta un buon banco di prova per la modernità. Cioè un regista di una generazione ancora giovane ma proiettata da tempo ai vertici delle istituzioni culturali. La tradizione con cui si confronta Ostermeier è infatti quella della regia novecentesca che nel suo teatro, la Schaubühne berlinese, trova forse la massima espressione contemporanea. E che non sembra vivere alcuna crisi.

    nora prima

    C’è semmai una questione della regia che non vuol dire soltanto cosa fare del patrimonio di testi ereditato dal passato ma ancor di più quale senso dargli oggi, come farlo vivere al presente e non come filologica riproposizione di un lontano momento creativo. Ostermeier viene dalla lezione brechtiana piuttosto che dalla più recente tradizione della Schaubühne, che a torto o ragione si fa risalire a Peter Stein. Lavora sulle relazioni corporee e sulle azioni dei personaggi, prima ancora che sulla parola anche se si affida strettamente a un teatro di testo, con una specifica predilezione per gli autori coetanei, come i nuovi arrabbiati inglesi. Le sue messinscene sono tutte assolutamente al presente, e non importa se ad andare in scena è un testo di Ibsen o di Sarah Kane (per aggiornare Hedda Gabler è stato chiamato ora il drammaturgo Marius von Mayenburg che aveva già rimontato il frammentario Woyzeck di Büchner visto ad Avignone). Quel che conta, nel lavoro di scavo del testo, è la sua resa scenica, sempre imponente e rigorosa, di un nitore privo di sbavature.

    (Assai diversa, come si sa, è l’estetica dell’altra metà della scena berlinese, quella sanguigna e pasticciona che ad est fa capo alla Volksbühne diretta da Frank Castorf, amata e detestata in pari grado da pubblico e critica, così come l’appendice del Prater, la sua struttura più sperimentale, dove regna il quarantenne autore e regista René Pollesch).

    Tocca allora agli attori dare corpo e sangue ai personaggi, portare un poco di sana entropia in quelle scene tanto pulite e geometriche da sembrare funerei monumenti all’arredamento contemporaneo, come nel caso di Nora la straordinaria Anne Tismer (che il sangue ce lo mette per davvero, nella violenza dell’azione si ferisce il volto e deve intervenire il regista a interrompere per un momento lo spettacolo, ma è finzione scenica naturalmente). Lo spostamento del titolo dell’ibseniana Casa di bambola sul nome della protagonista già è una dichiarazione di intenti.

    Nora cRitratto di donna in un interno da rivista di arredamento. Che la rotazione della scena, cara al teatro di Ostermeier, ci mostra da diverse prospettive, anche di sbieco e da dietro, quasi a volerci spingere a rinunciare a un unico punto di vista sulle cose. Qui architetto ci cova, fra candidi divani di pelle e pareti vetrate e soppalchi ricavati da qualche ristrutturazione. Anche se a calamitare lo sguardo è dapprima il grande acquario che prende quasi metà della scena e sembra ingigantire le dimensioni dei colorati pesci tropicali. Se a qualche rinuncia sono stato costretti, i coniugi Helmer, hanno salvato quel che serve del superfluo e possono presentarsi al mondo come una coppia moderna, che tollera con animo democratico l’amico invadente e l’esuberanza della cameriera esotica.

    Lei è molto ragazzina, però elegante, tutta vestita di bianco e con gli stivali. Una ragazzina del tutto amorale, nell’assoluto e innocente disinteresse per la sorte degli “estranei”. Anche l’uso del sesso come strumento per ottenere ciò che le serve pare altrettanto innocente, frutto dell’unica esperienza conoscitiva maturata fin lì. Si sbottona la camicia, si tira su la gonna, si appoggia su di lui, scappa per farsi prendere. E non è un caso però che anche attraverso la violenza di un sesso che non è più gioco, ma sopraffazione, passi la rapida educazione sentimentale della protagonista che si produce nei tre giorni in cui si consuma il dramma. E chissà se qualcuno ha già osservato quanto sia vicino l’eduardiano Sabato domenica e lunedì, metti il ragù domenicale al posto di altri riti domestici, se alla fine si arriva alla stessa resa dei conti, alla stessa lucida consapevolezza che “oggi per la prima volta stiamo parlando di cose serie”.

    Nora_3Prima bisogna però passare attraverso la stretta di una crisi che non vuole esplodere, e ci vuole la forza d’urto di un rock sparato altissimo, capace di trasformare la tarantella del testo in una danza furiosa. Senza più freni finisce dentro la vasca dei pesci, continua a ballare tutta bagnata, ridotta ormai a una maschera spaventosa, una immagine insanguinata alla Kill Bill, pronta per il confronto decisivo, mentre ancora si aspetta di essere salvata.

    Prende la pistola, per uccidersi, Nora. Ma non riesce a portare fino in fondo il gesto. Così, quasi d’istinto, come per liberarsi di quel gesto rimasto sospeso, di quel “non vederlo mai più” cui si era già assuefatta, gli punta addosso l’arma e spara a lui. È il cambiamento drammaturgico più rilevante operato sul testo. Di cui ci si spiega la ragione, se la necessità è di attribuire a Nora un gesto estremo qual era all’epoca di Ibsen (e oggi non è più) l’abbandono della casa e della famiglia. Altrettanto riprovevole. Una sorta di correlativo oggettivo, lo si potrebbe definire. Però tanto definitivo da non ammettere possibilità di ritorno. Deve rendersene conto anche lei mentre esce finalmente dalla sua casa di bambola, non senza aver prima pulito con cura le tracce del delitto. Don’t ask me why, dice la canzone. Mentre lei resta lì quasi impietrita.

    Quasi speculare ci appare allora il percorso umano di Hedda Gabler, cui Katharina Schüttler presta una fisicità irrequieta. Ci si presenta come una ragazzetta, pantaloni a vita bassa e pancia scoperta. Ma è già oltre rispetto a Nora. Il suo zodiaco sentimentale ha già compiuto un intero giro. E si ribella all’idea che la sua vita sia conclusa fra un marito in pantofole e un amante ormai insopportabile. Un grigio ometto è pure lo scrittore che qualche brivido deve averle dato in passato.

    hedda_1

    Qui la scena domestica è ancor più astratta ed elegante, se possibile. Una lunga parete divisoria, una vetrata che si apre verso l’esterno, un grande divano che si specchia nel lucido pavimento nero. Ma la vera invenzione scenica, più della pioggia che scende sui vetri, più dei computer che hanno preso il posto dei vecchi manoscritti, è l’enorme specchio spiovente che consente una deformata visione anche dall’alto. Rispecchiati da ogni lato, per i protagonisti del dramma non c’è modo di sfuggire a questo sguardo avvolgente. Non c’è modo di sfuggire a se stessi. Tutto è in vista, tutto appare. Anche ciò che è nascosto fuori scena, l’osceno letteralmente. Ciò a cui vorrebbe sottrarsi Hedda che aspira a elevarsi al di sopra della mediocrità, sogna la bellezza, anche nella morte. E invece non c’è modo di venirne fuori, il suo sogno la condanna e lei non può che condannarsi da sé quando sente che tutto ciò con cui viene a contatto si degrada. God only knows what I’d be without you, continuano a cantare i Beach Boys. Ambigua verità delle canzoni.

    *

    Fa invece l’effetto di un acquario la parete vetrata al fondo della scena in cui si specchiano gli spettatori mentre siedono nella sala del teatro di Rennes. Ma quando calano le luci anche quel poco di vita scompare, e lo spazio dell’azione si muta in un deserto di ghiaccio, un luogo fra la terra e il cielo attraversato da nuvolosi vapori che penetrano senza tregua dalle poche aperture. In questo gelido vuoto Thomas Ostermeier ricostruisce con la cura di un entomologo la tragedia di John Gabriel Borkman, o per meglio dire la battaglia mortale delle due sorelle che ne sono le vere protagoniste. Giacché questo è il suo snodo. Se togliamo al dramma di Ibsen i temi di superficiale attualità come crisi finanziarie e fallimenti bancari e ascese e rovine di aspiranti al potere economico pronti a tutto, che poco interessano anche al regista, quel che resta è la battaglia mortale che si scatena fra le due vecchie sorelle che ne sono le vere protagoniste.

    Borkman_1

    Ostermeier ci ha dato, con Nora e una straordinaria Anne Tismer, forse la più bella e sconvolta rilettura di Casa di bambola che ricordiamo (eguagliata solo da quella assai distante di Bergman, parecchi anni prima). E come corollario un’ambigua messinscena di Hedda Gabler che già proiettava la scena domestica in una dimensione ancor più astratta ed elegante. Ora, per tornare di nuovo a Ibsen (con la collaborazione drammaturgica di Marius von Mayenburg che aveva già provveduto ad aggiornare Hedda Gabler) il regista tedesco fa un passo oltre nel percorso che dalla giovinezza si rivolge verso la vecchiaia, all’interno di un universo femminile il cui zodiaco sentimentale ha già compiuto più di un giro. Niente più ritratti di donna in un interno da rivista di arredamento, ma un luttuoso andare insieme verso il tramonto.

    Ostermeier lavora sulle relazioni corporee e sulle azioni dei personaggi, si è detto, e tocca allora a due grandi interpreti della scena tedesca, Kirsten Dene e Angela Winkler, il compito di provare a riempire quel vuoto. L’attrice omaggiata da Thomas Bernhard nel titolo di Ritter Dene Voss e la protagonista di tanti film del cinema d’autore tedesco, ma anche grande attrice teatrale con Peter Zadek. Rese quasi uguali dall’abito color grigio ferro e dal caschetto di capelli neri, come se fossero già preparate per il lutto che pure le accomuna. Nella lotta per il possesso di due oggetti maschili, che le ha divise e ancora le divide. Il vecchio Borkman autorecluso prigioniero del suo passato e il figlio che la zia ha cresciuto e vorrebbe accanto a sé ora che si sa malata di un male incurabile, vorrebbe anzi dargli il suo stesso nome. Con ovvia e urlante ribellione della madre che l’ha già destinato suo malgrado al nobile compito di cancellare l’onta paterna – ovvio che lui non ne voglia sapere e prenda la fuga con una graziosa e svelta.

    E non si può non rimarcare allora la prova straordinaria che vi dà Kirsten Dene, fulcro di un cast tutto ovviamente di grande livello, come dev’essere per una produzione della Schaubühne berlinese. Attorno a lei, insediata nel divanetto che campeggia nel gelido vuoto della scena, sembrano ruotare le orbite delle diverse vicende. Come ruota la scena alternando due neutri spazi geometrici che hanno la sola funzione di accogliere i corpi, come le linee circolari i cui si inscrivono quelli che campeggiano nei dipinti di Bacon.

    Siamo al termine di quel singolare zodiaco femminile che Ostermeier ha composto attraverso i drammi di Ibsen, ché tale può apparire cioè allo spettatore il passaggio attraverso la giovinezza sconvolta di Nora e la maturità sofferta di Hedda Gabler. Ma se lì, nei due precedenti lavori, quegli interni da rivista di arredamento ancora denotavano un’ascendenza borghese, qui l’ambientazione si è fatta del tutto astratta. E quello spazio geometrico sembra costruito per avvolgere i gesti e le parole che si gettano addosso. Parole che sono ormai soltanto di recriminazione.

    Foto Brigitte Enguérand

    Foto Brigitte Enguérand

    Fino al ritrovarsi le due donne l’una accanto all’altra, su quel divanetto. Sole ormai. Entrambe sconfitte e dunque entrambe vincitrici dell’altra. La mano dell’una cerca quella dell’altra. La stringe in silenzio. E su quel gesto cala il buio. Forse la regia non è altro che la capacità di creare un gesto memorabile. E per questo gesto certo ricorderemo questo spettacolo.

    Post Tagged with