• I’m not the only one, ritratto dell’artista come sradicato.

    Che luogo è questo? Una intelaiatura di legno modella la struttura di quella che potrebbe essere una scenografia in costruzione o forse il suo backstage. Un grande schermo bianco campeggia al centro e da un lato si apre una zona separata, chiusa da una porta e approssimativamente arredata, sommersa dalla confusione, panni per terra, cavi elettrici, bottiglie d’acqua minerale, un televisore sempre acceso. Uno spazio provvisorio, comunque. Uno spazio di prova. Dove i tre interpreti venuti da continenti diversi attendono seduti l’ingresso degli spettatori. Un quarto se ne sta immobile contro una parete nel suo antro reclusorio, reso quasi indistinguibile da una tutina a pois identica alla tappezzeria.

    Consacrata a Bordeaux da una “lunga traversata” attraverso il suo repertorio e richiesta da molti teatri europei, coinvolta da Thomas Ostermeier in una messinscena shakespeariana alla prestigiosissima Schaubuehne berlinese ma ancora condannata all’insicurezza produttiva, Costanza Macras è tornata all’Auditorium con le due parti della sua nuova creazione. E torna a esplodere l’immaginario fusion della giovane coreografa argentina, l’eclettica voracità con cui vi si consumano le immagini della nostra quotidiana, il gusto divertito e divertente per le commistioni pasticciate, il suo indisciplinato giocare a cavallo dei generi, ma anche un severo bisogno etico di “tornare al presente”, come suggeriva il titolo del suo primo successo.

    I’m not the only one è un ritratto dell’artista come sradicato. La perdita, l’abbandono sono la materia di cui è fatto. Una condizione in cui si riflette evidentemente una parte non trascurabile di umanità. Se nel precedente No Wonder l’artefice aveva scelto di rimettersi in gioco anche fisicamente (e impudicamente) in prima persona, convocando sul palcoscenico un’altra argentina emigrata in Europa, Lisi Estaras, per un corpo a corpo con i fantasmi del loro paese, qui il coinvolgimento personale investe invece gli attori della sua compagnia Dorky Park. Laddove è inevitabile fare i conti con la memoria del mondo che ci si è lasciati alle spalle, reso concreto e presente dalle immagini filmate che si alternano o si sovrappongono all’azione.

    Ecco il ragazzo di Geselkirchen, un tempo zona mineraria e ora paesone senza più identità, che da adolescente ambisce ad essere cool, con indosso le scarpe leopardate che luccicano nel buio, mentre la voce di Kurt Cobain suggerisce una nostalgia d’annata. I cento lavori precari per tirar su qualche cosa, perché alla vita nell’arte che non paga non si vuol rinunciare. La ragazza coreana che sogna un ristorante coreano al posto del solito odiato sushibar.

    macras_notonlyoneUna cabina telefonica, in primo piano, è il luogo di comunicazione con il mondo che hanno lasciato. Cosa manca a Clarion? chiede la voce lontana. E ti si para davanti questo Mid West americano alla Fargo, mentre lei, Jill Emerson, fuggita a quel suo destino di reginetta delle mucche e di madre di una sfilza di bambini a cui la si vorrebbe richiamare indietro, insiste “voglio danzare”. Volto e corpo in cui un po’ si identifica il teatro di Constanza Macras, la bionda danzatrice americana è di una bravura mostruosa. Sa fare tutto. Attraversa la scena con movenze da cheerlady e gioca con le maschere di Star Wars. Si trasforma in cantante country. Oppure duetta con Knut Berger l’esilarante incontro con un ex fidanzatino, ora commesso in una formaggeria che vorrebbe ricondurla a un tempo felicemente dimenticato. E alla fine si abbandona a un solitario passo di danza, la gonna tirata su a coprire il volto, mentre cresce di volume percussivo la musica suonata da un trio di musicisti.

    Nel teatro di Constanza Macras, la danza è come una via di fuga. Mai una esercizio di stile fine a se stesso. Perché possa svilupparsi, qualcosa deve caricarsi fino a rischiare di esplodere. La danza è ciò che resta dopo che tutto si è consumato. Quando non c’è più nulla da comunicare e bisogna invece esprimere. Lo si vede bene quando finalmente la ragazza penetra nel covo del maniaco, impegnato fin lì in lezioni di spagnolo ed emissioni radiofoniche su come trasformare in positivo il pensiero negativo, scientology o chissà che altro, in mezzo a esercizi estenuanti di autoerotismo. Ed è scontro fisico violento, questa invasione di campo, concluso da un erotico passo a due che si consuma su un tavolino con la ritualità sinuosa di un’arte marziale. Lei lo replicherà da sola, alla fine, quel momento erotico, strisciando sopra e sotto e addosso al tavolino. Nella solitudine del suono di un violino. Al di là ormai della soglia del dolore.

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    Certo, dopo l’emozione intensa della serata precedente, la seconda parte del lavoro può lasciare confusi. Anche perché la drammaturgia di Carmen Mehnert appare qui più sfilacciata, le singole storie stentano a prendere corpo nei nuovi interpreti (e quanto ci manca Jill Emerson). E il riproporsi dei medesimi temi provoca un effetto di “già detto”. La scena ora appare svuotata. È rimasto lo schermo cinematografico, al centro, dove riappare la strada che corre diritta in un paesaggio desertico, ingentilito dalla presenza viva di una donna albero. Sono rimasti i tre musicisti da un lato e soprattutto la giovane coreana Hyoung-Min Kim dall’energia inesausta e la voce stentorea. È rimasta la voglia di giocare con la comicità slapstick, sfruttando il consunto meccanismo delle torte in faccia per rendere il palco una superficie scivolosa di panna e foglie morte che dona alla danza la dimensione aleatoria dei movimenti incontrollati: ed è proprio lì che colpisce, Macras, con l’emergere spiazzante di una memoria dolorosa. Nel calderone dello spettacolo si mescolano vestiti colorati e odalische ancheggianti, canzoni ebraiche e pop asiatico, abbracci e spinte e morsi, urla che accompagnano un tremito collettivo, Messico e nuvole. “La memoria è fragile, la spazzatura invece rimane sempre” diceva il primo motto della compagnia. E a distanza di tempo la lezione resta valida. Che anche nella spazzatura bisogna cercare il segno di una vita.

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