• Edouard Lock, geometria della vertigine

    Presentato in ultima replica presso la Place des Arts di Montréal, nella cornice di DanseDanse, dopo un tour mondiale di due anni, Amjad (2007/2009) – termine di origine marocchina che significa meraviglioso, straordinario – del coreografo Edouard Lock lavora intorno a due icone del balletto classico: Il lago dei cigni e La bella addormentata di Čajkovskij.
Non si tratta di una trasposizione in chiave contemporanea. Sarebbe impossibile seguire alla lettera le musiche e il libretto di quest’intreccio fatto di contese amorose, di metamorfosi e di morte. Ciò che resta, non è altro che una sottile rete d’associazioni spinte alle estreme conseguenze e consumate tra l’oscurità che scherma la scena e la luce bianca, fredda e distante, che bagna i corpi.

    • Foto: Edouard Lock Foto: Edouard Lock
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    Fedele a una linea di composizione radicale che ne fa una delle figure più interessanti del panorama coreografico internazionale, fin dagli esordi negli anni Ottanta quando fonda a Montréal i La La La Human Steps, Edouard Lock continua a interrogare senza sosta le modalità di decomposizione del movimento. E lo fa, in questo caso, continuando l’indagine sulla struttura classica del balletto avviata nel 2003 con Amelia. Sul piano sonoro, grazie alla complicità dei compositori Gavin Bryars e David Lang, la partitura è solo un sintomo fatto di ritardi, pause, accelerazioni di parti articolate su una struttura ripetitiva eseguita in scena da quattro musicisti: un pianoforte, un violoncello e due violini.

    I. La logica del dettaglio: quando manca il corpo

    La scena è pressoché spoglia e tendente al nero. Una luce illumina i corpi dei musicisti in scena mentre un’altra, quasi sempre bianca – un ovale che bagna dall’alto la scena – disegna il perimetro dentro il quale si consuma la vertigine dei corpi in movimento. La scena è composta intorno a un processo di spazializzazione: dei corpi da un lato, ma anche del suono, della luce. Come se il principio che guida e organizza i corpi nello spazio si estendesse in modo centripeto all’intera composizione del quadro scenico che si fa diagramma offerto allo sguardo: traiettorie, tensioni che a un tratto si fanno visibili, pulsanti.
La relazione tra questi diversi piani compositivi produce una sorta di tensione atmosferica, la sua temperatura.
L’articolazione del contrasto cromatico giocato tra oscurità e luce rivela, quasi in filigrana, un aspetto decisivo della composizione di questo lavoro: la logica del dettaglio.
A ben vedere manca sempre, all’occhio dello spettatore, una presa totale sul corpo, una comprensione logica, definitiva. Manca la pornografia del balletto classico, la sua chiarezza, la nettezza delle sue figure che si stagliano nello spazio. In Amjad è piuttosto un’erotica della distanza a essere messa in gioco. Una sottrazione della totalità.
Se il corpo non può essere compreso in una visione unitaria, ciò significa che è sempre un particolare o un insieme parziale di particolari a sbalzare in primo piano.

    Questo processo di composizione è ottenuto in scena secondo due direzioni precise: l’illuminazione che seziona i corpi e l’accelerazione del movimento.
La stessa logica sembra agire anche sul piano del materiale filmico che viene proiettato, come in una sorta di intervallo tra un quadro e l’altro della scena danzata, su tre grandi cerchi, spostando così la prospettiva sul corpo da quello fisico dei danzatori alla sua riproduzione video. È qui che la proiezione di primi piani su alcune parti del corpo sembra ricomporre, apparentemente, l’immagine globale del corpo mancante ma, a ben vedere, questo non fa che offrire un’altra serie di dettagli, parziali angolature, frammenti che spingendo nuovamente all’estremo il processo di decomposizione, trasfigurano definitivamente la scena in un quadro cinetico.
Si tratta dunque di diverse strategie per affermare che il corpo è incontornabile. Che manca sempre alla presa diretta. Non possiamo mai vedere un corpo. Comprenderlo nell’esercizio dello sguardo. Allora cosa resta? Accelerare il gesto o tagliarlo con la luce significa offrire allo spettatore un nuovo punto di vista dal quale guardare: se svanisce la presa totalizzante sull’interezza del corpo, la velocità del movimento consegna alla retina una successione di dettagli, traiettorie, impressioni vibranti di movimento. In sintesi: la traccia sospesa della sua anatomia.

    II. A fior di pelle: anatomia come traiettoria

    Sul piano della composizione del movimento il corpo è spinto al di là dei suoi limiti grazie alla resistenza e al lavoro sul disequilibrio.
In alcuni passaggi di Amjad la vertigine disegnata dal volteggiare dei corpi, gesti che sembrano sfidare le leggi della fisica e del tempo, mettono in rilievo la struttura della composizione, subito tradita a forza di impercettibili deviazioni ritmiche, inclinazioni asimmetriche del corpo. Ogni singola posizione sembra studiata: l’estensione delle braccia, la parabola delle gambe; la diagonale del corpo e dello sguardo dei danzatori sono traiettorie disegnate per creare una rete di relazioni tra punti periferici del corpo. È qui che i danzatori non mostrano semplicemente i loro corpi, ma fanno piuttosto vibrare il fascio di nervi, la struttura che li costituisce.

    Nel lavoro compositivo di Lock il movimento non coincide dunque completamente con il corpo, piuttosto è portato dal corpo. L’anatomia diviene allora un concetto operativo in cui il movimento è una texture, una rete di traiettorie a velocità variabile.
Se l’astrazione è una strategia per guardare attraverso la materia, l’anatomia è una modalità per guardare attraverso il corpo, farne un diagramma per portare il movimento in primo piano, sembra dirci Lock. Si tratta allora di offrire allo sguardo la traiettoria di questo flusso di movimento. In altri termini il lavoro di composizione che Lock sviluppa sembra dirci che quando la danza rompe la linea tra il corpo reale e il corpo simbolico – a livello della complessità, della velocità o della lentezza, o ancora di tutte le altre possibili forme d’interferenza – permette all’osservatore di riconoscere il suo corpo piuttosto che pensarlo. La velocità che Lock adotta come strategia per decomporre la struttura del balletto classico, sottoponendo ad accelerazione parti della coreografia, produce una forma di vertigine. Si tratta di una modalità in grado di trasformare il punto in linea e far proliferare la partitura coreografica; il movimento in accelerazione si fa sfida alla gravità, all’equilibrio, al mantenimento della forma. È qui che l’anatomia diventa un sorvolo: connette tutti i punti del corpo, tutti i suoi segmenti, ma non appartiene precisamente a nessuno di essi. È piuttosto un modo di tracciare una linea come tra punti di una costellazione. Questa modalità compositiva ha come risultato la produzione di un’instabilità percettiva che si libera a una moltitudine di dettagli in cui il corpo cessa di essere un’entità simbolica e diventa un’entità fisica dai particolari infiniti: un’estensione. Tutto ciò che lo contorna, come la luce o il suono che lo attraversano, si carica a sua volta di dettagli in un sistema di proliferazione. È qui, in questo spazio in cui il corpo si rivela, che cambiare velocità alla percezione significa abitare un altro tempo.