• Come un thriller psicologico, La maladie de la mort secondo Katie Mitchell

    Non è la prima volta che viene portata sulla scena La maladie de la mort. E forse qualcuno ricorda ancora la raffinata creazione tutta virata in nero e bianco che Robert Wilson trasse dal breve racconto di Marguerite Duras, una ventina d’anni fa. Un contrasto cromatico che dai costumi dei due interpreti – il nero della lunga veste abbottonata di Michel Piccoli, tutta bianca Lucinda Childs nel bianco che la circondava, i capelli chiarissimi e l’abito dal lungo strascico che le fasciava – si dilatava a quello fra maschile e femminile. Facendo da specchio al tema dell’impossibilità dell’amore e dell’incapacità di amare intessuto nel testo della scrittrice francese (lo si può leggere nella nuova traduzione di Rosella Postorino pubblicata di recente per le edizioni Nonostante). L’uomo ha accolto nella sua casa la donna, paga le sue notti. Non vuole sapere il suo nome. Non ha mai amato. E quel “mai” risuona a più riprese, in un sussulto di dolorosa interrogazione. Lui la guarda dormire per più notti di seguito, lei non parla. Poi lui si tuffa dentro il suo corpo, lei lo lascia fare. E alla domanda: perché ha acconsentito a quell’incontro ineguale, lei risponde che ha visto in lui la malattia della morte.

    Di quello spettacolo resta nella memoria il magistrale gioco dei due interpreti che a turno avvicinava e allontanava i loro corpi nello spazio, arrivando a sfiorarsi fino a rotolare l’uno sull’altra senza toccarsi. Mentre le loro parole si inoltravano dentro il mistero di quell’incontro, costruito da Duras sull’ossessiva contrapposizione del “vous”  diretto all’uomo e del distante “elle” con cui osserva la donna. Quasi gelida Lucinda Childs, nell’intessere la sua partitura di pause e silenzi; colma di un ostinato stupore la voce di Michel Piccoli, nel lasciar sospese le parole.

    Va in tutt’altra direzione lo spettacolo che Katie Mitchell ha realizzato alle Bouffes du nord parigine e ora è in tournée nei teatri dei numerosi coproduttori. La rinomata regista inglese fa ricorso infatti alla tecnica della “live cinema performance”, cioè un mix di video e performance dal vivo. Sulla scena è allestito un set cinematografico con una ingombrante troupe in azione fra microfoni e videocamere, affaccendata intorno agli attori fino a sovrastarli.  Lo spaccato meticoloso di una camera d’albergo in comunicazione con il corridoio comune. Un grande letto e un abat-jour. La doccia sul fondo. Lei, Laetitia Dosch, arriva con un abitino corto corto di lamé che subito si sfila e cade a terra. E questo rapido spogliarsi seguito poi da un frettoloso rivestirsi diventa una sorta di metronomo scenico che scandisce il tempo dell’azione. Mentre l’uomo, Nick Fletcher, non sembra muoversi mai da quella volontaria clausura.

    Foto di Stephen Cumminskey

    Le immagini riprese dalla troupe si proiettano in tempo reale su un grande schermo che sovrasta lo spazio scenico. Si soffermano sui dettagli dei corpi nudi dei due interpreti. Però montate con altre girate in esterno che raddoppiano il senso di ossessiva ripetizione dell’azione. L’ascensore con cui la donna si allontana. Il paesaggio di mare che fa da sfondo a tanti libri di Marguerite Duras. Una bambina bionda (forse la stessa protagonista) che entra in una casa dove infine troverà il padre impiccato. Correlativo forse del suicidio mimato, più che tentato, dall’uomo con una lametta.

    Su un lato della scena c’è però anche una cabina vetrata dove un’altra attrice (Jasmine Trinca) sovrappone al dialogo dei protagonisti la sua voce fuori campo, che poi dovrebbe essere la voce della narratrice. Ma è una voce depotenziata, che non si integra con la scelta di privilegiare ciò che per convenzione chiamiamo racconto. Il punto di attrito è alla fine quello di rendere esplicito, cioè tradurre con immagini concretamente quotidiane, il flusso verbale del testo, o quel che ne resta nel “libero” adattamento firmato da Alice Birch. Fino a trasformarlo, dichiaratamente, in un “thriller psicologico”. Cosa che certamente La maladie de la mort non è. Non è in questione naturalmente la libertà dell’artista di tradire l’autrice, ma il fatto che viene negata proprio la teatralità che lo spettacolo vorrebbe gonfiare attraverso lo schermo.

     

    © gianni manzella

     

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