• Come spiegare il teatro a una lepre morta. Da Beuys agli estoni NO99

    Nell’autunno 1965, alla galleria Schmela di Düsseldorf, l’artista tedesco Joseph Beuys si aggirava davanti ai dipinti esposti con una lepre morta in braccio, a cui sussurrava parole non udibili da chi più lontano assisteva all’azione. La performance è rimasta nella memoria anche per il suo enigmatico titolo, Come spiegare i quadri a una lepre morta. Lo stesso titolo ripreso da Tiit Ojasoo e Ene-Liss Semper per lo spettacolo che sta facendo conoscere fuori dai confini nazionali l’ensemble estone cui hanno dato nome NO99, l’abbiamo visto al parigino Théatre de l’Odéon. E infatti, a togliere ogni dubbio sul destinatario dell’omaggio, ecco seduto sul fondo dell’anonima sala dalle pareti gialline una figura immobile con una maschera dorata sul viso, come si presentò l’uomo che sussurrava alle lepri durante la sua azione; mentre più volte ritorna in proiezione l’immagine filmata un po’ retrò di una storica dell’arte che dice di quel lontano evento.

    Il filo che lega lo spettacolo all’happening di Beuys però si interrompe qui, o per meglio dire si sviluppa lungo una traccia meno visibile, intreccia l’eco che potevano avere in un paese appartenente all’epoca allo stagnante impero sovietico i nostri anni sessanta del secolo scorso (e viene in mente un altro artista di un paese baltico, il lettone Alvis Hermanis, quando evoca un concerto di Simon e Garfunkel che naturalmente a Riga nel 1968 non ebbe mai luogo) con questioni mai chiuse, e anzi particolarmente aperte in quegli anni anni così incandescenti quali il compito dell’arte o il ruolo delle avanguardie artistiche. Non è insomma in gioco una qualsivoglia illustrazione della storica performance ma semmai il pensiero che ci trasmette nel presente. Con i suoi problemi, che non ci sono sconosciuti. Ecco infatti una vispa burocrate che discetta di bilanci del suo ministero, di tagli alla cultura e sovvenzioni europee e sollecita l’applauso della platea (dicono le cronache che abbia a che fare anche con il fatto che una ministra della cultura estone effettivamente si chiami Lepre, loro ovviamente negano l’importanza di questo dettaglio, come si usa dire: ogni riferimento è casuale…).

    Il tema è dunque l’arte, o più precisamente quella sua zona grigia, senza confini precisi, fra arte e vita, dove operano le avanguardie artistiche. Alle prese con l’eterno problema del che fare. Come ritrovare la stessa energia tutte le sere. Come essere credibili senza la protezione di un testo. Solfe anche un po’ noiose (ancora?) se non fossero esemplificate sulla scena da un susseguirsi di azioni un po’ buffe, un po’ deliranti, sempre animate da una invidiabile carica vitale. E allora prove di improvvisazioni da epigoni del vecchio Living, esercizi di resistenza fisica, cosacce con la bocca, ma anche una quotidianità di contratti da firmare, pettegolezzi di attori, telefonate notturne, interviste banali, richieste di prestazioni sessuali. Si ammucchiano in dieci su un divano. Fanno danzare le casse acustiche e mimano un condensato di prove sportive. Si ripetono sovente, forse inutilmente. Mentre la ministra moltiplica le sue periodiche incursioni (sono con voi, sono una persona di cultura, ho idee larghe… pare che che siano tutte cose prese da discorsi della suddetta signora, secondo un procedimento caro un tempo anche a Marthaler), non si scompone nemmeno quando le fanno notare con discrezione che sta rivolgendosi ai teatranti con le parole preparate per i calciatori, lei ricomincia con le stesse frasi sul tenere alto il nome dell’Estonia… E intanto qualcuno dà voce al buonsenso reazionario di chi si chiede perché la collettività debba pagare per cose che nessuno capisce.

    E le lepri? Ci sono anche quelle. Sono quattro, a grandezza umana, assistono con vago interesse alle azioni prodotte davanti a loro, si aggirano con aria pensosa davanti a una fila di immagini appese a una parete, si arrestano davanti a un corpo inchiodato a quella stessa parete da un’asse di legno, consultano dubbiose il catalogo che tengono in mano, allargano le braccia un po’ sconsolate. Ma quando compare una ragazza, via tutte dietro. Troppo divertenti, per non sentire per loro una qualche solidarietà. Perché non basta andare in scena e vedere cosa succede, sembra essere la morale.

    NO99 è stato fondato a Tallinn nel 2004 dal duo Ojasoo e Semper, lei artista visiva e lui uscito da studi teatrali, come attore e regista. Nel loro teatro, collocato in un edificio di epoca sovietica, hanno dato vita a parecchie produzioni, numerate a calare dal 99 che compare nella sigla della compagnia (Come spiegare i quadri reca il numero 83 di una serie che rivela anche così l’intento unitario del progetto artistico). Forse è presto per dire se siamo di fronte a una rivelazione paragonabile a quel che fu per Nekrosius o Hermanis, ma mostrano di saperci fare. E l’incontro delle loro due culture si vede, nella folgorante sequenza con cui ci si avvia al finale. Per svuotare la scena, gli interpreti raccolgono al centro tutto il décor e l’impacchettano come un’opera di Christo o uno degli imballaggi del primo Kantor, per poi tirar su questa vera e propria scultura che resta sospesa sulle loro teste mentre si lanciano in una danza. Su di noi resta sospesa quell’implicita domanda, come spiegare il teatro alle tante lepri morte nostrane che si annidano negli assessorati, nei consigli di amministrazione degli stabili, nelle direzioni dei festival…

     

     

     

     

     

     

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