• Al gran ballo della vendetta. Donnellan mette in scena la tragedia di Thomas Middleton

    La parola “vendetta” si staglia a caratteri cubitali sulla rosseggiante palizzata di assi di legno che racchiude lo spazio scenico. Gli interpreti si presentano lì davanti sgambettando sulle note di un motivetto allegro, in una passerella da varietà d’antan. Ahi ahi ahi, cantano muovendo per l’aria una mano. È l’imprinting che Declan Donnellan impone alla messinscena allegramente sgangherata de La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton, autore elisabettiano di qualche anno più giovane di Shakespeare. Il regista inglese deve la sua fama soprattutto alla trasposizione in abiti contemporanei di opere scespiriane (l’estate scorsa avevamo visto a Napoli una non proprio memorabile versione di Pericle principe di Tiro ambientata in una asettica sala ospedaliera dove il delirio di una mente febbricitante convocava i propri fantasmi). Qui si cimenta, per la prima volta ci pare, con una compagnia e una produzione italiana, la firmano Piccolo teatro milanese ed Emilia Romagna Teatro.

     Foto Masiar Pasquali

    Incesti, uccisioni, prostituzioni, torture, efferatezze di ogni genere, potere che corrompe ed è corrotto. Non c’è limite all’orrore nella “tragedia di vendetta” di Middleton. Qualcuno ancora ricorda lo spettacolo di Luca Ronconi a Prato, ormai parecchi anni fa, nel segno dell’ambiguità e del travestimento con uno straordinario cast tutto femminile (il testo allora era ancora attribuito a Cyril Tourneur). Donnellan va per un’altra strada, come subito si è capito. Una commedia nera tirata ai confini della farsa. Come si fa del resto a metterla sul tragico con quel protagonista Vindice, vendicatore di nome e di fatto, che gira con in tasca il teschio rinsecchito della moglie stuprata e uccisa dal duca. E dunque siamo a un passo dal fare della tragedia una sorta di Ubu re, altro testo su cui il regista si era esercitato con successo anni fa. Come suggerisce la sarabanda finale, con i congiunti che si scannano uno dopo l’altro per mettere il proprio culo sul trono, tanto per restare al verbo di Jarry.

    La parete lignea si apre spesso a mostrare alle sue spalle, in una sorta di pittorico trittico, un di fuori che dona un’illusoria via di fuga. Dal centro si avanza una pedana con i pochi arredi che servono per la rappresentazione delle scene. Il gran letto dove la duchessa esibisce i propri amplessi. Il tavolo a cui siede il giudice che deve sentenziare l’ennesima violenza di cui si è reso responsabile un giovanotto della famiglia ducale. La dormeuse dove viene composto un macabro simulacro femminile, rispecchiato nell’immagine della Venere di Tiziano che sta agli Uffizi. Sul fondo si proiettano infatti alcuni capisaldi pittorici del nostro Rinascimento, come a confermare l’ipotetica ambientazione italiana della tragedia. Il doppio ritratto dei duchi d’Urbino dipinto da Piero della Francesca. La corte di Ludovico Gonzaga dipinta da Mantegna per la Camera degli sposi di Palazzo ducale a Mantova. O il ritratto di uomo barbuto, ancora Tiziano, questa volta alla National Gallery, in cui qualcuno ha voluto riconoscere l’Ariosto.

    Lo straniamento della vicenda da un contesto storico, determinato dalla cornice scenografica (come d’abitudine di Nick Ormerod), se da un lato porta lontano da una possibile interpretazione politica, ne sottolinea però il carattere di finzione. Rende esplicita la rappresentazione. Non è che si potrebbe avere un tuono qui? chiede il protagonista alla regia. E quello puntualmente arriva. E allora la felicità con cui si dipana il gioco scenico è anche, forse soprattutto, merito degli attori: il duplice protagonista Fausto Cabra, Ivan Alovisio che è il suo antagonista Lussurioso, Pia Lanciotti che si sdoppia davvero fra la voluttuosa duchessa e la madre virtuosa ma non tanto da non vendersi la castità della figlia davanti al solido argomento che l’onestà è una retorica da preti, il sempre gustoso Massimiliano Speziani, la giovane Marta Malvestiti e tutti gli altri.

    Si arriva così, si diceva, alla festa finale. Un gran ballo di tutti sulla musica di Gianluca Misiti, mentre una videocamera (ma non sarà ormai un po’ abusata?) rimanda in presa diretta i dettagli della ripetuta carneficina. E torna anche quel motivetto allegro dell’inizio. Ahi ahi ahi. Una tragedia? peggio: un guaio, avrebbe detto Totò.

     

    © Gianni Manzella

     

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