• Acido e visionario, il Peter Pan di Robert Wilson

    Il mondo visionario e fiabesco di Peter Pan si addice certamente al teatro di Robert Wilson, alla piega che ha preso da qualche tempo la sua maniera, in bilico fra il piacere infantile del meraviglioso e un’accentuata propensione per il nero. Ma alla riuscita del bellissimo spettacolo visto a Spoleto non è sicuramente estranea la collaborazione che il regista ha intrapreso da svariate stagioni con il Berliner Ensemble. E che regge alla prova di progetti indisciplinati, da una Lulu dagli echi magrittiani con una star quale Angela Winkler alla sfida di mettere da parte il brechtismo canonico per tornare con una livida Opera da tre soldi agli irrequieti anni giovanili dello scrittore di drammi (tanto da aver poi spinto Wilson a replicare lo stesso modello produttivo con altri teatri “nazionali”, da Praga ad Atene, con esiti non sempre altrettanto felici). Vuol dire poter disporre di un gruppo di interpreti mostruosi per capacità attoriali. Ma vuol dire anche il confronto fra due tradizioni diverse e all’apparenza assai lontane, il teatro formale del regista texano e quello epico della storica compagnia berlinese, due maniere appunto, nel senso più alto del termine (Pontormo e Rosso, per andare a una recente mostra fiorentina). Ne abbiamo parlato altre volte.

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    Un richiamo all’infanzia lo troviamo installato, da principio, sul palcoscenico spoletino del Teatro nuovo, ma come pietrificato nella bianca scultura alla Segal di un bambino  che con una canna da pesca tira su una lampadina accesa, proiettando la sua ombra sul fondale. Dove poi si apriranno quelle ampie finestre colorate o si staglieranno in controluce quelle sagome scure che tanto fanno Wilson. Ed è una bambina ad attraversare per prima la scena, inseguita da una buffa figuretta in tutù dall’incerta identità sessuale e dalle movenze spigolose. Che quest’ultima sia la fata Campanellino lo dice la bacchetta malandrina che maneggia con elettrica impudenza. Mettiamo pure da parte la Trilly disneyana o Julia Roberts nel film di Spielberg. Pensiamo piuttosto, se serve un correlativo, alla figura femminile di un dipinto di Christian Schad, molto anni Venti e “addio a Berlino”, però interpretata da Marty Feldman, l’Igor di Frankenstein Junior per intenderci. Siamo da tutt’altra parte, non occorre dirlo, rispetto alle immagini stereotipate che hanno avvolto in un bozzolo zuccheroso la creazione di James Matthew Barrie – in origine lavoro teatrale, vale la pena ricordare. 

    Wilson prende il racconto del ragazzino che si rifiuta di crescere e lo ribalta nella forma a lui cara della commedia musicale, ma virata in una tonalità acida, un po’ perversa. Ecco infatti l’ormai rituale sfilata dell’intero ensemble, a passo veloce lungo la traccia luminosa  segnata a filo del proscenio da una fila di neon. Volti imbiancati su cui sta dipinta una sorta di espressione attonita o ammiccante. Gesti meccanici, in cui ciascuno di loro cerca di mettere una propria individualità, il marchio di una differenza. Ma quell’eco di un espressionismo tedesco che già volge verso la nuova oggettività di Otto Dix e Christian Schad appunto, sfiorando il cinema di Pabst e Fritz Lang, le fotografie di August Sander, così percepibile nell’Opera da tre soldi, qui si stempera in un clima emotivo più prossimo al sogno. Magari di quelli che fanno paura.

    Dalla massa ancora indistinta, che cerca di farsi conoscere e si sbatte per affermare una propria personalità, un poco alla volta emergono quelli che con un po’ di approssimazione possiamo definire i personaggi della storia, pur se sottratti a una ipotetica psicologia. La bambinona Wendy e i suoi fratelli in pigiama bianco, papà e mamma Darling, finalmente il protagonista Peter Pan, che si affaccia alla grande finestra della casa in cerca della sua ombra. Un ragazzone lungo e sottile con qualcosa di David Bowie. I pezzi per ricomporre il puzzle della storia ci sono tutti. Li conosciamo. I ragazzi perduti hanno capelli arancio un po’ punk. Il coccodrillo in abito da sera si annuncia con un suo terrorizzante tic tac. Appaiono sirene e pirati che hanno piacere di esserlo, mentre passano vaporose nuvole su carrelli spinti a mano e i bambini cantano: possiamo volare. E poi c’è Capitan Uncino, con la sua solitudine. Il più brechtiano di tutti, e infatti la musica che l’accompagna tira verso Kurt Weill e il Songspiel. È lui la vera diversità dell’Isola che non c’è, e vien fuori tutta al momento dell’incontro con l’amato nemico.

    Nell’esplorare collaborazioni musicali sempre diverse, da Tom Waits a Lou Reed e ai Metallica, questa volta Wilson è approdato alle musiche e alle canzoni delle sorelle Bianca e Sierra Casady ovvero le statunitensi CocoRosie. Perché, lo si era già notato, siamo nel territorio del musical, il più americano dei generi, che il regista ha portato a un livello non superabile di perfezione con il memorabile Black rider. E questo spettacolo ci regala il piacere della teatralità allo stato puro. La maniera di Wilson è una miniera di invenzioni, a cui non si può che abbandonarsi affascinati. 

     

     

     

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